Morto il cardinale Biffi, il pensiero forte di una Chiesa senza compromessi

11 Lug 2015 12:47 - di Antonella Ambrosioni

È morto a Bologna il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003. Ne ha dato notizia la diocesi bolognese. Aveva 87 anni e da tempo era malato, ricoverato in una clinica bolognese, dove è morto nella notte. Giacomo Biffi fu vescovo, teologo pungente e ironico, autore di testi acuminati contro il cedimento allo spirito del tempo. Uomo di Chiesa che preferiva posizioni nette, «la certezza della fede» a sfumature e compromessi. Indomito nello smascherare e contrastare «i cedimenti e i mimetismi» della Chiesa allo spirito del tempo. Sfogliando i testi del cardianale Biffi, scorrendo le sue predicazioni, si ritrova il vigore d una predicazione controcorrente. Costantemente ripagata sui media come “reazionaria”. Ma che in realtà è stata una delle pochissime voci forti – pensanti e capaci di far pensare – riscontrabili ai vertici della Chiesa italiana, in questi anni recenti.

La porpora gli fu conferita da Giovanni Paolo II il 25 maggio 1985, poco meno di un anno dopo l’ingresso nell’arcidiocesi emiliana. Il cardinale Biffi era  nato a Milano 57 anni prima, il 13 giugno 1928 e cresciuto in via Paolo Fusi, in una famiglia popolare. Nel 1942, durante la guerra, entrò nel seminario di Venegono. Fu ordinato prete a ridosso del Natale 1950, dal cardinal Ildefonso Schuster. Questi, con l’arcivescovo Giovanni Colombo – che consacrò Biffi ausiliare nella diocesi più grande del mondo nel 1976 – furono i punti di riferimento. Prima era stato parroco a Legnano, 15 anni; quindi a Sant’Andrea in Milano. Per convincerlo ad “emigrare”, lui stesso raccontava che il pontefice polacco dovette invitarlo a cena nel Palazzo apostolico. Fu così che un vescovo milanese erede della grande tradizione della Chiesa ambrosiana approdò sotto le Due Torri, il 2 giugno 1984 e iniziò una seconda vita che durò quasi 20 anni. Diceva di essere del «partito della Chiesa» e a Bologna trovò le amministrazioni di sinistra. Di posizioni antiprogressiste, non lesinò critiche salaci un po’ per tutti. Nel ’94: «I milanesi non ci sanno fare con la politica, brutto segno se smettono di fare gli imprenditori», e per Prodi, nel ’98: «Dopo l’Ulivo mi porta via anche l’asinello, di questo passo non mi resta più niente». Quindi definì «un miracolo» l’elezione a sindaco di Guazzaloca nel ’99.

Fu scrittore inesauribile (celebre, la rilettura teologica di Pinocchio). Ma anche pastore di voce forte, e dalle espressioni fortunate. Come quel «sazia e disperata», aggettivi che, pronunciati nel 1988, quasi lo perseguitarono, anche se non si stancò di precisare che erano stati mal riportati e riferiti all’Emilia-Romagna e non alla città. Non esitò a contrastare i luoghi comuni del “politicamente corretto”, come quando in tema di immigrazione affermò che «non esiste il diritto di invasione» – sull’immigrazione di popolazioni islamiche. Tra le personalità con cui si confrontò a Bologna, ci fu Giuseppe Dossetti, monaco e sacerdote. Un rapporto complesso, caratterizzato da visioni divergenti su Chiesa e Vaticano II. Biffi ne presiedette i funerali nel ’96 e lo descrisse come «autentico uomo di Dio». Ma anche dopo la morte, non mancò di tornare sulle divergenze. Punto chiave del mandato, il congresso eucaristico del 1997; il concerto con Bob Dylan sul palco del Caab, insieme a Giovanni Paolo II, raccolse 400 mila persone. Tra le ultime funzioni presiedute, i funerali di Marco Biagi. Poi, congedatosi a inizio 2003, fece in tempo a partecipare al conclave che elesse Ratzinger nel 2005. Per i restanti anni, vissuti a villa San Giacomo, alla Ponticella, scelse il silenzio.

Fece discutere il suo libro autobografico “Memorie e digressioni di un italiano cardinale” e non di un cardinale italiano, disse, perché «la mia identità nazionale ha preceduto di molti anni il mio ingresso nel Sacro Collegio. E mi preme anche sottolineare che io sono italiano non per i meriti del conte di Cavour o del Comitato di liberazione nazionale (Cnl), né in grazia della Costituzione repubblicana. Io sono italiano perché sono italiano; e nessuno può farci niente, nemmeno io». Di rigore intellettuale e di una franchezza umana insoliti, il cardinale si è confermato uomo sempre scomodo e indomito nel sollevare domande ritenute impertinenti dagli intellettuali e dall’establishment. La domanda che ora, alla sua morte, resta sul tappeto è questa: non tanto perché il cardinal Biffi abbia scandalizzato la stampa, ma perché sia stato uno dei pochi a farlo. Ma si capisce se si leggono i suoi scritti direttamente. Alcune frasi: «L’Europa diventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la cultura del niente». «C’è chi identifica il dovere del dialogo, della tolleranza, della cortesia verso tutti con la rinuncia a cercare, conoscere, difendere la verità». Insomma, nessuna melassa buonista con cui tante, troppe «lettere pastorali» avvolgono le verità cristiane. Niente brodini tiepidi: uno stile franco, diretto, netto. Spesso condito con l’ironia e l’humour di un grande intellettuale che sa che con le idee ci si può anche divertire. Tutto ciò forse era “imperdonabile”: un prelato che scrive e pensa con stile e piglio «laico» in un mondo in cui troppi, da capi di Stato e vertici istituzionali, non fanno altro che recitare “omelie”.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *