Gli scavi di Pompei sono in ostaggio di sindacati stile anni ’60?

28 Lug 2015 9:25 - di Redazione

«A Pompei il vero problema è la mancanza di una “traccia strategica” con il patrimonio culturale trasformato in una semplice somma aritmetica: sito archeologico più milioni di turisti internazionali. In questo modo non abbiamo più un volano di sviluppo per il territorio, ma solo flussi di reddito che finiscono in pochissime mani. Il caso di Pompei non è isolato ma è come quello di Venezia o Firenze». Michele Trimarchi, messinese, è docente di Economia della cultura a Bologna e di Economia pubblica all’Ateneo di Catanzaro, in passato è stato componente dell’Associazione per l’Economia della cultura e nell’executive board della Association for Cultural Economics.

Sindacati a Pompei hanoo svelato loro vera natura: corporativa e fannullona

«Pompei va gestita con tutto il territorio — sottolinea al “Corriere dela Sera” — e il resto del patrimonio paesaggistico e culturale dell’area, cosa che oggi non avviene». Ma il prof non sfugge all’obiezione: come fa un sito a svilupparsi se resta prigioniero di sindacati corporativi che tirano giù le saracinesche davanti agli occhi inorriditi di migliaia di turisti? «Il sindacato — tuona l’economista — sta adottando protocolli da economia manifatturiera che non esistono più dagli anni Sessanta. È ridicolo, se non fosse grave, che un manipolo di sindacalisti possa bloccare un sito danneggiando anche gli stessi lavoratori che ci lavorano».

Gli Scavi come una grande palude invece di una grande bellezza.

«Il bene appartiene al territorio, nel caso di Pompei alla comunità mediterranea. In secondo luogo, considerare i beni culturali come beni essenziali spinge lo Stato a spenderci dei soldi e a spenderli bene, non come ha fatto finora. C’è un termine che mi piace molto, è “accountability”, che significa affidabilità, trasparenza e verifica degli obiettivi. E gli obiettivi per un bene culturale, come Pompei, non sono quelli di fare soldi, di guadagnare più che altrove, di fare numi di soldi. L’obiettivo è di dire al turista: quando torni? Quello che mi interessa è attivare un processo».

Pompei sia gestita (bene) come un supermarket: “e il mercato risponderà”

«Il supermercato è una struttura in cui il cliente è trattato con delicatezza e intelligenza, certo anche con un minimo di furbizia, ma tenendo sempre conto dei suoi bisogni. Alla fine vincono tutti: il compratore perché è informato, il venditore perché ha un cliente in più. Quindi il problema di Pompei non è rendere le persone migliori — la cultura d’altronde non rende buoni per default, Hitler amava la musica classica ma gasava gli ebrei — ma creare processi di sviluppo senza effetti speciali. Il supermercato ci suggerisce che l’acqua si trova alla fine e noi là la troviamo. Bisogna organizzare i percorsi e spiegare quello che dobbiamo trovare. Se la cultura si racconta veramente per quella che è, il mercato risponde».

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