Palermo, manifestazione silenziosa per Lo Porto: «Ridateci la salma»

30 Apr 2015 19:51 - di Redazione

«Vogliamo la salma di Giancarlo». È tornato a ribadirlo anche in queste ore Giuseppe Lo Porto, uno dei fratelli del cooperante palermitano rimasto ucciso a gennaio scorso in un raid americano al confine tra Pakistan e Afghanistan. Giuseppe è andato giovedì pomeriggio davanti alla sede della Prefettura di Palermo, dove si è svolta una manifestazione silenziosa in ricordo del fratello. Intanto, il Comune, insieme all’ufficio regionale scolastico, ha deciso di intitolare a Lo Porto il plesso dell’istituto comprensivo Sandro Pertini che ospita la scuola dell’infanzia e si trova nel quartiere Brancaccio. Lo ha reso noto l’assessore comunale alla Scuola Barbara Evola, anche lei davanti alla prefettura – insieme al sindaco Leoluca Orlando e ad altri componenti della giunta – dove è stato osservato un minuto di silenzio. La manifestazione, “Un fiore per Giovanni”, è stata organizzata dagli amici del cooperante ucciso, i quali hanno piantato un albero in suo ricordo sul marciapiede di via Cavour e riposto mazzi di fiori. «Da oggi – ha detto un’amica di Lo Porto, Valeria De Marco – quest’albero porterà il nome di Giovanni».

Caso Lo Porto, la Casa Bianca potrebbe cambiare idea sui riscatti per gli ostaggi

Ma da Washington si ribadisce che non i terroristi non si tratta. La politica della Casa Bianca non è cambiata, anche se nel 2012 l’Fbi facilitò il pagamento di un riscatto ad al Qaida da parte della famiglia di Warren Weinstein, l’ostaggio americano poi ucciso per errore lo scorso gennaio da un razzo lanciato da un drone della Cia in Pakistan nello stesso raid in cui è rimasto ucciso anche il cooperante italiano Giovanni Lo Porto. E apparentemente non è il solo caso. Il Federal Bureau of Investigation verificò l’attendibilità di un mediatore pachistano che doveva consegnare ai rapitori 250 mila dollari per conto della famiglia Weinstein, e fornì anche altre informazioni di intelligence che avrebbero dovuto favorire lo scambio, scrive il Wall Street Journal citando in forma anonima alti funzionari Usa. Fedeli alla linea ufficiale, gli agenti dell’Fbi non autorizzarono o approvarono direttamente il pagamento del riscatto, ma decisero di aiutare i familiari di Weinstein quando capirono che ormai erano determinati a perseguire la strada delle trattative con i rapitori. L’Fbi disse loro che il mediatore appariva attendibile e non parte di una truffa per sottrarre del denaro, anche se ammonì che il pagamento non avrebbe garantito il rilascio dell’ostaggio. La famiglia Weinstein consegnò quindi al mediatore il denaro, raccolto attraverso canali privati, ma Warren non fu mai liberato. Il caso Weinstein, scrive il Wsj, così come il Daily Beast che cita un veterano negoziatore dell’Fbi, non è l’unico in cui gli agenti del Bureau hanno aiutato le famiglie degli ostaggi a capire come pagare riscatti ai rapitori. Una simile assistenza, almeno iniziale, salvo poi fare marcia indietro, è stata fornita anche alla famiglia di James Foley, il giornalista decapitato dall’Isis in Siria lo scorso agosto. Una pratica che stride con la politica di chiusura sempre affermata dall’amministrazione, spesso entrata anche in polemica con quei Paesi europei accusati di pagare e di finire così per finanziare gruppi terroristici. Sempre lo scorso anno la Casa Bianca ha annunciato che il Dipartimento di Stato, quello della Difesa, l’Fbi e la comunità di intelligence hanno avviato su ordine del presidente una revisione della politica Usa in materia di riscatti ai terroristi. Lo ha ricordato lo stesso Obama quando la scorsa settimana si è pubblicamente scusato per la tragica morte di Weinstein e Lo Porto.

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