Quando Napoli “impazzì” per Almirante sindaco

27 Giu 2014 8:06 - di Mario Landolfi

Giorgio Almirante e Napoli: un grande amore e molto di più, sebbene fosse nato – il leader della destra – a Salsomaggiore. Da una “famiglia di guitti”, come a lui stesso piaceva ricordare. La madre lo partorì dietro le quinte di un palcoscenico, circostanza all’epoca affatto inusuale per la gente di spettacolo. Nacque lì solo perché in quei giorni vi si esibiva la compagnia degli Almirante. Ancora un po’ di tempo e sarebbe  nato altrove. Ma non v’è dubbio che se avesse potuto indicarlo lui il luogo in cui venire alla luce, avrebbe scelto Napoli. Troppo intenso, a tratti persino viscerale e comunque indissolubile, è stato il rapporto tra il capo del Msi e la capitale del Sud per poter essere derubricato a pacata simpatia o per scolorire in una tiepida quanto pelosa gratitudine di matrice elettorale.

Napoli, simbolo di un Mezzogiorno da riscattare e da restituire alla nazione con la sua millenaria civiltà, e Almirante, incarnazione politica e retorica di un’idea di patria e di popolo, erano fatti l’una per l’altro. Il “caldo e vivificante vento del Sud” contrapposto al “freddo e mortifero vento del Nord”, non era il vagito di un protoleghismo rovesciato ma, al contrario, l’esito dell’amara consapevolezza che solo da quella parte d’Italia – cui la storia e la sorte avevano concesso il privilegio di non conoscere l’orrore della guerra civile – poteva sorgere una nuova unità nazionale finalmente depurata dai miasmi mefitici dell’odio fratricida. Non è dunque per caso se fu proprio Napoli la sede congressuale da cui la destra, nel 1979, lanciò la sfida di quella “Nuova Repubblica“, che Almirante riuscì a caricare di potenza profetica semplificandola in “Repubblica dell’avvenire” con l’obiettivo di spezzare le catene della partitocrazia attraverso l’elezione diretta. Obiettivo da perseguire soprattutto a Napoli ed al Sud, i terreni ritenuti più idonei a sperimentare nuove formule politiche. Il seme che sarebbe germogliato solo nel decennio successivo, negli anni ’90, con l’elezione di tanti sindaci tricolore, fu lanciato allora.

L’occasione arrivò l’anno dopo. Correva l’anno 1980 e ai piedi del Vesuvio si votava per il rinnovo del consiglio comunale. Cinque anni prima anche Napoli con Maurizio Valenzi, come Roma con Giulio Carlo Argan, era diventata una città “rossa”. Non se l’aspettava nessuno e persino gli americani – da sempre sensibili al fascino partenopeo – ne furono colti di sorpresa. Ma era davvero così. Quella che l’Unità aveva trionfalmente salutato come “l’impetuosa avanzata del Pci” alle amministrative del 1975 non aveva risparmiato neppure la città di San Gennaro. Che addirittura si vedeva trasformata in una sorta di testa di ponte per la conquista del Sud da parte dei comunisti. Davvero troppo per considerarla una elezione di routine. E infatti tutto cambia e per la prima volta il Msi non scende in campo “dall’opposizione, per l’opposizione” ma come “alternativa di governo”. In una fase in cui si votavano i consiglieri, la destra punta su “Almirante sindaco”. Una vera rivoluzione, che accende la speranza dei sostenitori e mette i brividi agli avversari. La stampa fa a gara nel demonizzare l’uomo del “doppiopetto”, che per tutta risposta va a fare campagna elettorale nei bassi senza sole. I napoletani apprezzano. La “valanga nera” – come i media definiranno in quei giorni appassionati il consenso di oltre 150mila elettori – sembra inarrestabile. Il Msi è la terza forza ad un’incollatura dalla Dc e dal Pci ed ha tre volte i voti dei socialisti. Ma è primo nel cuore antico della città: Duomo, Mercato-Pendino, Vicarìa, Forcella, ma anche Santa Lucia e Vomero. Ma la vittoria è politica: lo slogan “Almirante sindaco” ha ormai sdoganato l’elezione diretta. Il leader missino non ne coglierà i frutti, ma è stato lui a scrollare l’albero

E l’albero era Napoli. Una Napoli capitale decaduta, ma non ingenerosa come ad Almirante appariva quell’Italia del Nord incapace di riaccogliere i suoi figli “vinti” nello scontro fratricida. Ma anche Napoli come immenso teatro, che non poteva lasciare indifferente un “figlio di guitti” nato tra le tavole di un palcoscenico. Ed, infine, Napoli, città monarchica e regale sin nella sua essenza popolana e plebea che in quel patriota dagli occhi chiari e puri e dalla parola affilata come lama di sciabola aveva riconosciuto ed abbracciato uno dei suoi re.

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