La lezione del voto amministrativo: dal territorio può nascere una nuova stagione politica

10 Giu 2014 13:39 - di Silvano Moffa

Le analisi del voto amministrativo, coi tempi che corrono, sono diventate più complesse ed articolate. Le ragioni sono molteplici. Non sempre seguono un filo logico, quel tratto di coerenza che aiuti a fissare in categorie chiare e definite i cambiamenti, i flussi elettorali, la stessa mobilità di voto che, mai come ora, ha raggiunto livelli così consistenti. Per orientarsi, forse è meglio partire da qui, dalla specificità che quel voto rappresenta. La scelta diretta del sindaco, ricordiamolo, risale al 1993. All’indomani di Tangentopoli e nel pieno della crisi della prima Repubblica, si fece strada l’idea di offrire proprio sul terreno locale una risposta alla impellente domanda di verticalizzazione della politica, accompagnata da una richiesta di decisionismo, di responsabilizzazione e di partecipazione diretta dei cittadini alla vita della propria città. In quel tempo i partiti mostravano le prime crepe, anche se avevano ancora voce in capitolo. E i sindaci eletti, bene o male, e salvo alcune eccezioni, si sentivano ancora parte di un progetto politico nazionale, cui ambivano (il cosiddetto “partito dei sindaci”) a prendere nelle proprie mani il destino. Quell’esperienza diede i suoi frutti. Si generò un cambiamento antropologico nel ceto politico locale. Saltarono i vecchi metodi di governo territoriale. Si allargò la sfera di influenza dei primi cittadini. Il loro potere divenne più diffuso e pervasivo. Il cambiamento si fece sentire sia sul quadro delle modifiche legislative, sia nella istituzionalizzazione di un rapporto diverso e più cogente tra Stato e territori amministrati. La riforma del Titolo V  matura proprio in quel clima, nella percezione diffusa, a destra come a sinistra, che fosse sufficiente trasferire dal centro alla periferia la sfera del potere e delle decisioni per sburocratizzare il sistema, velocizzare le procedure, accorciare le distanze tra istituzioni e cittadini. Abbiamo visto che le cose sono andate nel verso opposto. Il federalismo, nella versione rabberciata, confusa  e contraddittoria che abbiamo sperimentato,  si è rivelato un autentico fallimento. La equiordinazione introdotta in Costituzione tra Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, ha aggiunto caos al caos; sono aumentati i  contenziosi e si sono rarefatti i livelli di responsabilità. Per rimettere ordine e offrire un minimo di organicità al sistema istituzionale, bisogna ripartire proprio da qui. In fondo, il variegato  tessuto locale, nella nuova stagione di sindaci che spuntano a dispetto dei partiti oppure traggono forza e consenso dalla vitalità di una protesta che non conosce confini e non si nutre di ideologia , che si giova di una indistinta ribellione a prescindere che agita strati sociali sofferenti, segnati dalla crisi, in perdita di fiducia verso i modelli politici “tradizionali”, primi cittadini chiamati a muoversi nel marasma di un indistinto palcoscenico dove il nuovo rischia di essere travolto dal Nuovismo, che del Nuovo è , appunto, caricatura e inganno;ecco questo variegato e multiforme tessuto locale potrebbe trasformare una prorompente vitalità in un progetto di cambiamento effettivo. Linfa, non magma, di rinnovamento;  spinta, non freno, per ridare senso alla politica. Fresca materia prima per partiti imbolsiti e rachitici. Ciò vale per la destra, come vale per la sinistra. Ad una condizione però : che non ci si perda nei giudizi affrettati sul voto nei comuni. E si comprenda che inducono in errore le analisi  che sfuggano alla ricerca affannosa di una dimensione “altra” dei partiti, dei leader, delle riforme, degli  stili, dei comportamenti, di quella che si chiama etica della responsabilità.

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