‘Ndrangheta, nel reggino maxi-sequestro per 420 milioni. E a Roma nuova raffica di “sigilli” nel centro

13 Mar 2014 10:53 - di

Doppio colpo alla ‘ndrangheta. Complessi turistici, società per la costruzione e la gestione degli stessi complessi, veicoli commerciali, sette auto di lusso e conti correnti e disponibilità finanziarie: sono i beni, per un valore complessivo di 420 milioni, sequestrati dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Reggio Calabria, dello Scico di Roma e del Gruppo di Locri a quaranta persone

ritenute legate alle cosche Aquino e Morabito operanti ad Africo e Marina di Gioiosa Ionica. Le indagini, coordinate dalla Dda di Reggio Calabria, sono state avviate nell’ambito dell’Operazione “Metropolis” nel corso della quale, il 5 marzo scorso, erano state arrestate venti persone reati associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori e reimpiego di capitali illeciti. Le indagini avevano consentito di accertare come le cosche Morabito ed Aquino, attraverso un’articolata e complessa rete di società italiane ed estere, fossero riuscite a garantirsi, con la forza dell’intimidazione mafiosa, la gestione, il controllo e la realizzazione di decine di importanti e noti complessi immobiliari turistico-residenziali, situati nelle più belle zone balneari della Calabria. Dopo l’operazione, la Dda ha delegato il Nucleo di polizia tributaria di Reggio, lo Scico di Roma ed il Gruppo di Locri a fare indagini patrimoniali nei confronti dei soggetti arrestati, dei loro familiari e di altre persone. Gli accertamenti hanno portato all’individuazione di alcuni prestanomi. Una scelta, definita “particolarmente incisiva” dagli investigatori, si è rivelata essere la predisposizione ed acquisizione delle tavole ortografiche e fotogrammetrie satellitari su tutti i beni immobili oggetto di investigazione. Quindi, con un’accurata rielaborazione, sono stati confrontati i numerosi dati acquisiti, mettendo in risalto l’aspetto della sperequazione tra redditi dichiarati e l’incremento patrimoniale accertato, per poi procedere ad una nuova e definitiva analisi contabile, che ha consentito, secondo l’accusa, di evidenziare un eccezionale arricchimento patrimoniale dei soggetti attenzionati, realizzato nel corso degli ultimi quindici anni. E sempre stamattina è scattato un altro sequestro. La Dia ha sequestrato alla cosca Fiarè-Razionale di Vibo Valentia negozi e attività commerciali nel centro di Roma, beni immobili e società operanti nel settore dell’edilizia nel Lazio per un valore di oltre sette milioni. Il provvedimento è stato emesso nei confronti di Saverio Razionale, 53 anni, nato a San Gregorio d’Ippona (Vibo Valentia) ma residente a Roma. Tra i beni sequestrati a Roma, il Caffè Fiume, nelle adiacenze della piazza omonima poco distante da via Veneto, e una porsche usata da Razionale; a Vibo i sigilli sono stati messi a terreni e a una concessionaria di auto. Saverio Razionale, al vertice della cosca dagli anni Ottanta, dopo l’attentato in cui perse la vita in un agguato a Pizzo il precedente capo cosca Giuseppe Gasparro, detto “Pino u gatto” – agguato in cui egli stesso rimase ferito – era divenuto un elemento di riferimento per tutte le attività della cosca criminale, dalle estorsioni, all’usura, al riciclaggio, oltre a essere coinvolto in fatti di sangue. Trasferitosi a Roma nel 2005, dopo l’arresto e la successiva scarcerazione per scadenza dei termini di custodia, era riuscito a dar vita, nella Capitale, a una rete criminale specializzata nel reinvestimento di proventi illeciti in beni immobili e attività commerciali, nonché nel condizionamento e nell’infiltrazione degli appalti, tramite società di comodo. Condannato a quattro anni e sei mesi nel 2011, dalla Corte d’appello di Catanzaro, per associazione di tipo mafioso, con sentenza diventava definitiva all’inizio del 2012 con la pronuncia della Corte di Cassazione che aveva rigettato il ricorso presentato dai sui legali, Razionale si era reso latitante, sino allo scorso febbraio, quando la Suprema Corte, pur confermando la condanna per l’associazione di tipo mafioso, aveva annullato il provvedimento per una questione tecnico-giuridica connessa ad una errata determinazione della pena da parte della Corte d’Appello, che lo aveva condannato e che non aveva tenuto conto delle attenuanti generiche a suo favore.

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