La Cina in Africa. Treni, computer e mazzette

20 Gen 2014 11:37 - di Marco Valle

Gran casino a Nairobi. Appena poche settimane dopo la chiusura — con le firme del presidente Uhuru Kenyatta e dell’executive director di China Communication Construction ltd, Lui Qitao — del super contratto per la costruzione della nuova ferrovia trans-africana Mombasa-Nairobi-Kampala, i leader dell’opposizione hanno lanciato una violenta campagna stampa accusando il Pubblic Investement Committee — l’organo di controllo statale — di frode e corruzione. Nulla di strano e, considerati gli standard africani (ma anche italiani…), nulla di nuovo: da queste parti mazzette e tangenti sono la regola non  l’eccezione. Di diverso questa volta è l’entità della cifra — svariati milioni di dollari — e gli interlocutori, i cinesi. Secondo il capofila dell’United Repubblican Party William Ruto, alcuni membri dell’amministrazione avrebbero convinto gli intraprendenti asiatici a far levitare i prezzi delle opere. Di certo vi è un deciso aumento dei costi: ogni chilometro di strada ferrata verrà a costare ben 3,7 milioni di dollari invece dei 2,9 milioni previsti…

Per Ruto e i suoi è l’ennesima occasione per mettere in imbarazzo il detestato Kenyatta, già contestato per la sua incriminazione al tribunale internazionale dell’Aia e l’opaca gestione del recente attentato terroristico di Nairobi. Ma non solo. Dietro ai veleni del “rail gate” il Kenya (e non solo) inizia ad interrogarsi sulla deriva filocinese del presidente. La faccenda dei “binari d’oro” si somma, infatti, ad una serie di impreviste quanto significative aperture del governo agli “amici di Pechino” come la gestione dello strategico porto di Mombasa, la concessione di preziose zone minerarie, la costruzione di un oleodotto dal Sud Sudan alla costa e il rilascio, lo scorso anno, di ben 25mila permessi di lavoro ad “esperti” cinesi.

Da qui, al netto delle polemiche politiche, l’inquietudine della borghesia commerciale locale (principalmente musulmana e indiana) sempre più infastidita dall’invasità di Pechino, la preoccupazione degli investitori stranieri e lo sconcerto del potente alleato americano, regista e finanziatore dell’occupazione keniota (una guerra a bassa intensità e poco pubblicizzata) nella Somalia meridionale.

Nel frattempo, incuranti (almeno apparentemente) della bufera di Nairobi, i rappresentanti del dragone proseguono lungo il loro cammino. Con qualche piccolo accorgimento. Per placare le polemiche Pechino ha varato leggi più severe contro il contrabbando d’avorio — un turpe commercio che solo lo scorso anno ha causato l’abbattimento di ben 350 elefanti nel paese africano — e ha donato migliaia di computer al ministero dell’Istruzione. Bazzecole di fronte ad un investimento infrastrutturale di 5,2 miliardi dollari che rappresenta il futuro asse di penetrazione commerciale nell’intera Africa equatoriale.  La commessa assegnata  (senza gare, con buona pace di Italferr che ci sperava…) alla China Road Corporation ha come primo obiettivo sviluppare entro il 2017 il traffico cargo tra Nairobi e lo scalo di Mombasa. In un secondo tempo la ferrovia verrà prolungata verso l’Uganda, il Congo, il Ruanda, il Burundi e il Sud Sudan. Il cuore e lo scrigno dell’Africa.

Non è tutto. Accanto alla linea trans-africana, Pechino ha proposto a Kenyatta un piano da 25 miliardi di dollari per sviluppare il porto di Lamu, 300 chilometri a nord di Mombasa, e trasformarlo in un grande polo logistico e nel terminale degli oleodotti sud sudanesi. Il progetto prevede anche la realizzazione di una linea ferroviaria lungo la costa e la trasformazione del piccolo aeroporto di Malindi in uno scalo internazionale. Anche in questo caso l’Europa e l’Italia restano a guardare.

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