La Leopolda non seduce proprio tutti. Polito: a Renzi manca il Lingotto. Ma a sinistra saltano tutti sul suo carro
Oggi siamo tutti renziani? La tre giorni alla Leopolda è stato un successo mediatico e di partecipazione (settemila persone) con un parterre variegato e coloratissimo che va dal vendoliano Gennaro Migliore al socialista Riccardo Nencini. Se per Matteo, camicia bianca, pantoloni slim e microfono anni ’50, «la sinistra che non cambia non è sinistra, è destra», nel corpaccione del Pd è partita la corsa furbetta al cambiamento, al restyling delle vecchie facce, al rogo del reliquiario post-comunista.Dario Franceschini conferma l’entusiasmo del “neofita” e avverte «un forte odore di cose nuove», il dalemiano Nicola La Torre tifa per Matteo che «è il futuro», insomma, non è più quel fastidioso rompiscatole definito una “preziosa risorsa” da tenere a bagnomaria come speravano i bersaniani. Oggi tutti annusano come cani da tartufo aspettando il D-day dell’Immacolata: Fabrizio Rondolino lascia il Giornale per raccontare su Europa l’epopea del sindaco rottamatore, Claudio Velardi si tuffa nella mischia. Gli “spingitori di carro” («sul carro non si sale, ma si spinge») escono come uomini nuovi dalla stazione fiorentina, ex quartier generale del nemico. Ma è il Pd a somigliare di più alla Leopolda o il contrario? Le parole d’ordine per la nuova narrazione, come direbbe Bertinotti, sono quelle di sempre: rottamazione, guerra all’autoreferenzialità e tanto veltronismo della prima ora con quel “futuro” definito «il posto migliore dove posso vivere”» l’immancabile musa Baricco, le metafore sportive, il fanciullino pascoliano. Anche il loft al centro di Roma, a metà strada tra Camera e Senato, sembra un omaggio all’ex sindaco.
Facce nuove e niente correnti, Renzi giura di fare piazza pulita delle divisioni interne, nessun cerchio magico e nessun guru alla Casaleggio. Ma basterà per rialzare il centrosinistra dalla vocazione al pareggio, dalla sindrome del migliore che ha impedito di contrastare il ventennio berlusconiano? Antonio Polito esce dal coro della stampa osannante: dov’è la piattaforma, dove sono le idee che devono trasformarsi in proposte di legge, emendamenti, voti? Alla rincorsa di Renzi manca il salto, non ha ancora avuto il suo Lingotto – dice l’editorialista del Corriere della Sera – a quasi nessuna delle scelte che impone l’attualità viene data risposta perché il problema è sempre un altro, “cambiare l’Italia”». Campione di benaltrismo, insomma , Renzi è muto sull’economia, sullo Stato sociale, sulla politica estera perché è un uomo solo, «intorno a lui non è cresciuta in questi anni una squadra di cervelli all’altezza del compito». È stato spesso affiancato a Tony Blair – ricorda Polito – anche lui come Matteo “giovane, simpatico, diverso” ma il premier britannico dietro aveva Gordon Brown…
Non la pensa così Mario Lavia che dal suo osservatorio privilegiato di Europa, è convinto che la scelta del carro poggi su una spinta sincera. «La base e la maggioranza del partito sono con Renzi perché è l’unico in grado di far vincere il Pd, anche i più diffidenti hanno dovuto prendere atto che il giovane sindaco non è il berlusconiano senza idee…». Ma soprattutto c’è la constatazione che non ci sono altre opzioni credibili dopo la delusione per Bersani, il silenzio di Vendola e il flop dell’operazione Ingroia. «Sbsglia Polito, ieri Renzi ha celebrato il suo super-Lingotto nel linguaggio, nei contenuti, nell’evocazione della nuova sinistra, basta – dice Lavia – con questa scemenza che Renzi è di destra e che non ha una piattaforma, quello che ha detto sulla giustizia è un fatto dirompente per la sinistra». Forse è solo, ha ragione Polito, ma «è il problema di tutti i leader, lo erano anche Bersani e Veltroni, nessuno ha mai avuto grandi staff, quando andrà al governo credo che Renzi attingerà al bacino fuori del Pd». Anche nel rapporto con il governo la verità è molto semplice: tra Renzi e Letta non ci sono né trappole né patti, il governo va avanti indipendentemente e se cadrà, sarà per il corto circuito sull’economia, per Berlusconi non certo per le mine (come le chiama Epifani) di fabbricazione amica. «Con Renzi – conclude Lavia – finisce la vecchia idea del Pd come il prolungamento del Pci-Pds-Ds».