La spending review, uno degli inglesismi vuoti adottati dal nostro gergo politico

3 Lug 2013 16:18 - di Oreste Martino

Spending review è stata una delle formule più usate ed abusate dalla politica nell’ultimo anno, ma nonostante leggi ad hoc e un impegno severo del governo tecnico guidato da Mario Monti i dati sui conti pubblici italiani sembrano ancora bel lontani dall’essere posti sotto controllo. Forse perché i partiti sanno che per prendere voti serve allentare i cordoni della borsa e non stringerli, come ha fatto Monti pagandone il prezzo dell’impopolarità e del cattivo risultato elettorale. A un anno di distanza i numeri parlano chiaro e fanno registrare un’altra crescita delle uscite anziché l’auspicata compressione. Nel 2013 la spesa pubblica complessiva raggiungerà la cifra di 810 miliardi di euro, con un incremento di 10 miliardi rispetto al 2012. Va detto però che dinanzi a questi numeri il ministro dell’Economia Saccomanni ha fatto un po’ di chiarezza snocciolando dati da cui si evince che esiste una parte di spesa incomprimibile e una parte che invece si può aggredire.

Partendo dal welfare si scopre che lo Stato italiano spende 320 miliardi all’anno per aiutare i cittadini o per ripagarli dei sacrifici fatti. Solo le pensioni costano 255 miliardi ogni anno, a cui si aggiunge l’assistenza sociale. Certamente anche in questa cifra si potrebbe intervenire, ma si tratterebbe di piccole limature con il rischio di generare conflitti sociali che a loro volta produrrebbero dei costi per essere gestiti. Ci sono poi 84 miliardi per pagare gli interessi del 2013 sul nostro enorme debito pubblico e per risparmiare su questa voce servirebbe un calo dello spread, una maggiore credibilità internazionale e quindi proprio una razionalizzazione delle uscite. A questi vanno aggiunti 163 miliardi per pagare gli stipendi della pubblica amministrazione.

Le aree dove invece si può intervenire, e il ministro Saccomanni lo ha confermato, sono i consumi intermedi, che fanno spendere allo Stato 128 miliardi annui per acquistare beni e servizi, e la spesa sanitaria che quest’anno giungerà a ben 111 miliardi. In queste due sacche secondo la Corte dei Conti si annida il massimo dello spreco, nonché logiche clientelari e corruzione e sono proprio queste due voci di spesa che devono essere colpite draconianamente – ma con molto giudizio nel settore della sanità – dalla spending review. Al ministero dell’Economia pur consapevoli di non poter tagliare molte voci hanno concluso il loro studio dicendo che c’è un plafond di 207 miliardi di euro di spesa dove si può e si deve tagliare, proveniente principalmente dalle due voci prima citate. In realtà, se ci fosse la volontà politica sarebbe molto più facile di quel che si pensa. Il governo da anni si è dotato di una centrale acquisti nazionale, la Consip, i cui risultati positivi sono sotto gli occhi di tutti. Ogni acquisto fatto da amministrazioni centrali o periferiche attraverso la Consip porta a un risparmio del 20% e basterebbe costringere legislativamente tutti i centri di spesa nazionali e locali a passare attraverso lo strumento centralizzato degli acquisti per tagliare di 40 miliardi all’anno la spesa pubblica complessiva, con un taglio totale del 5% e un risultato senza precedenti che ci metterebbe in condizioni migliori quando trattiamo con i nostri partner europei.

Per seguire questa strada servirebbero due cose semplici: una forte volontà politica e una norma di tre righe che obblighi a spendere meglio, centralizzi gli acquisti e i controlli. Sembra facile, ma una scelta del genere inevitabilmente si scontra con il piccolo cabotaggio del clientelismo e del finanziamento della politica locale, dove si preferiscono piccole gare per acquistare a prezzi alti da soggetti che finanziano i partiti a meccanismi che produrrebbero invece un serio taglio della spesa. È questo il vero nodo da sciogliere e finché la legge non obbligherà in maniera cogente tutti i centri di spesa italiani a comprare attraverso la Consip o alle medesime condizioni della Consip la spending review sarà soltanto uno degli inglesismi vuoti adottati dal nostro gergo politico.

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