I 18 mesi (di pazienza) Napolitano li ha assegnati a se stesso
Non è dato sapere se parlando di “esperienza a termine” Napolitano abbia di fatto assegnato al governo Letta ed al Parlamento che lo sostiene non più diciotto mesi di vita, cioè lo stretto tempo necessario ad approvare ex-articolo 138 alcune riforme costituzionali, oppure se abbia voluto sottolineare l’eccezionalità di una maggioranza tra forze politicamente e programmaticamente alternative e, come tale, non replicabile oltre la legislatura in corso.
L’interpretazione letterale dell’esternazione presidenziale sembra non alimentare dubbi: a missione compiuta e cioè una volta modificate in modalità bipartisan l’architettura istituzionale e le regole del gioco con una nuova legge elettorale, si torna alle urne. A guardar bene, tuttavia, l’utilizzo di un’interpretazione sistemica e più aderente allo stile del primo settennato di Napolitano invita a ritenere altrettanto probabile la seconda opzione. Basta un piccolo sforzo di memoria per rendersene conto. Il presidente ha posto il proprio sigillo al varo dell’esecutivo. Difficile, quindi, che a distanza di circa due mesi ne preconizzi la fine con così largo anticipo. Inoltre, sa bene che un anno e mezzo di pur importanti riforme istituzionali non può e non deve distrarre Letta ed i suoi ministri dal trovare soluzioni vere e strutturali alla drammatica emergenza economico-sociale in corso. Infine, è fin troppo esperto di rapporti internazionali per non immaginare che apporre una scadenza al governo in carica equivale a togliergli respiro e forza presso le cancellerie e sui mercati. Senza ovviamente dimenticare che nel suo pur pronunciato interventismo Napolitano è stato rigorosissimo nel non varcare mai i confini a lui assegnati dalla Costituzione. Non ignora quindi, il presidente, che fin quando esisterà una maggioranza di deputati e di senatori disposti a sostenere un governo, quel governo continuerà a resistere e ad esistere. Siamo una repubblica parlamentare. Nessuna scadenza anticipata può essere stabilita senza con ciò violare la nostra Carta fondamentale.
È invece probabile che indicando un termine il capo dello Stato, più che ricordare ancora una volta al ceto politico l’ineludibilità delle riforme, legge elettorale compresa, abbia voluto evidenziare la propria indisponibilità ad avallarne ritardi o rinvii. Un anno e mezzo è un tempo congruo. Non è un ultimatum, ma la spia di un salto di qualità nella strategia di contenimento delle crescenti pulsioni antiparlamentari nel Paese da parte del presidente. Che assume così una funzione di vigilanza sui partiti (e non sul Parlamento) vincolandoli al rispetto degli impegni assunti al momento del varo del governo. E non è una cosa da poco. In questo modo il Quirinale cessa di essere Palazzo tra Palazzi e ritaglia per sé il ruolo di tramite tra istituzioni e cittadini a garanzia di un percorso riformatore nel cui merito non entra ma al quale fissa una scadenza precisa trascorsa inutilmente la quale, si riserva la possibilità di denunciare all’opinione pubblica come inaffidabile ed inconcludente un’intera classe politica. È chiaro che la scadenza il presidente l’ha fissata soprattutto a se stesso. Nessuna sua parola, nessuna sua esternazione, infatti, riuscirebbe più dell’interruzione traumatica del secondo settennato ad evidenziare in maniera altrettanto estrema l’irriformabilità del sistema politico.
Tutto insomma lascia pensare che siamo all’avvio di partita molto più complessa di quanto non faccia pensare la pur irrituale apposizione di una scadenza presidenziale. Come tante volte nel corso della sua complessa e tormentata storia politica, l’Italia è di fronte ad un bivio. Si tratta di scegliere se imboccare la strada che fra un anno mezzo ci potrebbe portare ad avere nuove regole per la scelta del presidente della Repubblica, una diversa legge elettorale ed una più moderna architettura dello Stato oppure quella che ci inabisserà verso il collasso delle istituzioni, quasi verso un secondo 8 Settembre. Con la sola differenza che ad arrivare, stavolta, sarebbero i tedeschi e non gli americani.