Non buttiamo la croce addosso alla docente di Caserta
Ha suscitato clamore la notizia lanciata da Il Giornale e poi rimbalzata su altri organi d’informazione della professoressa dell’istituto tecnico-commerciale “Buonarroti” di Caserta che avrebbe malamente apostrofato un suo alunno perché indossava una maglietta con su stampata la faccia di Berlusconi. Come da copione, il fattaccio non è passato inosservato. La politica è stata unanime nell’esecrarla (mercoledì prossimo l’argomento sarà trattato nel corso del question time alla Camera dei Deputati) mentre, regolamento alla mano, la dirigente ha aperto un’istruttoria nell’attesa della visita ispettiva prevista nelle prossime ore. Un vero macello.
La vicenda potrebbe essere però un po’ diversa da come è stata raccontata e probabilmente la politica c’entra davvero poco o forse nulla. È questa, ad esempio, la conclusione cui giunge il Corriere del Mezzogiorno, che ha focalizzato l’attenzione sul tormentato rapporto tra una docente molto rigorosa, di antico conio, e quindi poco propensa a far entrare la politica in classe neppure sotto forma di abbigliamento, ed uno studente abbastanza esuberante che nonostante i suoi 16 anni suonati siede ancora tra i banchi del primo corso. La prof avrebbe cercato di correggerlo e sembrava esserci riuscita: lo aveva convinto a tagliare i capelli, tanto lunghi da coprirgli il viso, a fargli togliere gli occhiali a specchio mentre era in classe, a non indossare una tuta troppo larga, fino ad arrivare alla storia della t-shirt con l’effigie del Cavaliere.
Sarà vero, sarà falso, in ogni caso io conterei fino a mille prima di scaricare la croce sulle spalle della docente. Se ha insultato o maltrattato il ragazzo è giusto che paghi con adeguata sanzione, ma non facciamo di questo giovanotto una vittima e men che meno un altro improbabile eroe dei nostri giorni che paga ingiustamente il fio delle sue simpatie politiche. Queste sono sceneggiate cui ci ha abituato una certa sinistra, che nei decenni scorsi non ha davvero perso occasione per minare quel principio di autorità che – sebbene di molto ingentilito rispetto al passato – necessariamente deve continuare a caratterizzare il rapporto all’interno di una scuola tra dirigenti e docenti e tra questi e gli alunni.
L’informazione degli ultimi anni ci ha abituati a misurare le dimensioni della crisi attraverso parametri macroeconomici o attraverso statistiche, cifre, raffronti. Ma i numeri da soli non spiegano tutto. Una nazione si piega e si accartoccia anche quando le sue pulsioni profonde non obbediscono più ai principi ispiratori di una società ben ordinata. A volte, sono proprio piccoli scricchiolii sinistri a dare più dei grandi rumori il senso di un crollo imminente. E la scuola resta l’architrave su cui poggiano le speranze di un domani migliore, nonostante tante infelicissime scelte del remoto passato. I suoi “utenti” diretti sono i giovani, che docenti preparati, seri e rigorosi sono chiamati non solo ad istruire e ad informare ma soprattutto a formare, con la partecipazione delle famiglie se possibile, senza ed in qualche caso persino contro se necessario. La realtà – ahinoi – è ben diversa ed oggi non si contano i genitori che ricorrono al Tar contro la bocciatura dei propri figli. È il frutto bacato di una competitività intesa come avanzamento a tutti i costi e non solo se lo si merita.
Il caso di Caserta è perciò un paradigma di un’Italia malata che piega anche la scuola alle esigenze propagandistiche dell’appartenenza. Sarebbe invece bello, oltre che giusto, se – una volta accertata la dinamica dell’accaduto – il ministro competente si discostasse un po’ dalla moda del momento per dire che la scuola si regge essenzialmente su chi insegna e su chi apprende e che mentre i primi senza i secondi non hanno lavoro né stipendio, i secondi senza i primi non avranno cultura né futuro. E questo basta e avanza a far capire quanto una scuola sana non possa che partire dal rispetto di chi parla da dietro una cattedra.