25 aprile. Che ci sarà mai da celebrare?

25 Apr 2013 9:05 - di Marcello De Angelis

Lo storico Renzo De Felice affermò che la peggiore eredità che il Fascismo ci ha lasciato è l’antifascismo che, a suo dire, era una scusa per praticare l’intolleranza violenta con delle false coperture morali. E ne trovò conferma sulla sua pelle quando, ormai alla fine della sua carriera, si vide impedire l’ingresso all’Università di Roma da un gruppo dei centri a-sociali che cercarono di aggredirlo dandogli addirittura del nazista. Poco dopo, nel febbraio del 1996, qualcuno gli incendiò la casa. Tre mesi dopo l’uomo considerato anche all’estero “il massimo studioso del fascismo” morì.

Probabilmente chiedendosi, lui che aveva alle spalle anche una lunga militanza comunista e poi socialista, in che cavolo di Paese avesse vissuto se, a 50 anni dalla fine della guerra, un anziano professore di storia dovesse rischiare il linciaggio e la vita propria e dei propri familiari solo per aver scritto dei libri di storia. Il 25 aprile, spiegano molti antifascisti – quelli giovani – serve a celebrare il ricordo imperituro di chi, con la guerra partigiana, ci ha regalato la libertà e la democrazia di cui oggi godiamo. Purtroppo, a dire il vero, la democrazia gli italiani di allora l’hanno ricevuta, allo stesso modo degli iracheni di oggi, dagli americani. Dopo una guerra fatta di bombardamenti sulle città e un’invasione. Questa è la storia e non c’entra nulla l’ideologia.

I partigiani furono protagonisti di una guerra civile combattuta contro italiani che ritenevano di combattere per l’Italia con una visione diametralmente opposta. Con il 25 aprile si festeggia la sconfitta dei secondi, più che la vittoria dei primi. Il che ci può anche stare, le guerre sono così: c’è uno che vince e uno che perde. E il vincitore di rado fa sconti al vinto. Dai tempi di Brenno, almeno. La domanda è: che cosa c’entrano i nostri figli – e ormai i nostri nipoti – con quella guerra? E perché i discendenti di chi quella guerra l’ha persa dovrebbero ancora essere trattati come i vinti di una guerra che non hanno combattuto e nemmeno visto da lontano perché sono nati decenni dopo che era finita? E, soprattutto, perché a trattarli così dovrebbero essere persone che anch’esse non hanno combattuto nessuna guerra per liberare alcunché, ma hanno solo scelto di schierarsi dalla parte di chi vinse allora per reclamare il diritto di negare, oggi, la libertà ad altri? Sono queste le domande che, ogni anno, noi figli della generazione di italiani che combatté quella guerra – e ormai genitori e nonni di altri italiani – ci poniamo. Aveva ragione De Felice. Per questo gli bruciarono la casa. Sono passati 17 anni da quell’attentato dimenticato. In Italia è cambiato tutto. Ma, almeno oggi, sembra non sia cambiato niente.

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