Lo studioso delle «idee che mossero il mondo»
Se n’è andato con la leggerezza degli anziani. Dopo un percorso intenso e aspro, il vecchio corpo dell’antico “incendiario d’anime” – così lo definì nel 1978 la “Pravda” moscovita – non ce l’ha più fatta. L’onorevole Pino Rauti è morto ma per la Destra italiana – questa galassia variegata, plurale e, oggi, smarrita, sfilacciata – “Pino” c’è, è presente. Al di là della sua vicenda politica – un alternarsi di visioni alte, proposte innovative e coraggiose intrecciate, purtroppo, a un tatticismo talvolta incomprensibile – rimane il pensiero, rimangono le inquietudini, le idee “che muovono il mondo”.
Ecco perché Rauti, nonostante la tempesta dei ricordi, non può essere ridotto ad icona identitaria, ad un simbolo di un immaginario neofascista. Ad impedirlo vi sono le sue elaborazioni, le sue tesi, i suoi libri: un patrimonio importante da studiare e comprendere. Con nuova attenzione.
A causa della pesante conflittualità interna che per decenni lacerò l’area, l’opera di Rauti – uomo d’enorme cultura ma carattere solitario e spigoloso – non sempre fu compresa adeguatamente dal suo “mondo umano”. Difficile, negli anni Cinquanta-Sessanta, per un’ambiente impregnato di reducismo comprendere gli sforzi del giovane teorico che nelle pagine evoliane – il primo schema de “il Fascismo visto da Destra” fu pubblicato sulle pagine di “Ordine Nuovo” – cercava una via per superare il nostalgismo e il primitivismo.
Scandaloso per un partito rinchiuso in un’ottica occidentalista, ascoltare nel 1963 – in piena guerra fredda – le dure critiche all’americanismo; per Rauti l’atlantismo «ha una forma, un aspetto, una struttura esteriore, sui quali è facile equivocare. Ma non ci sono dubbi dell’esistenza e persistenza di quello che noi definiamo il suo “limite fatale”, la sua intima e non eliminabile incapacità di stringere con l’Europa legami che non siano di momentaneo interesse».
Arduo per un mondo provinciale, rimasto alle memorie dell’Abissinia, leggere con gli occhi attenti di Rauti la decolonizzazione, il dramma dei “centurioni” di Algeri, i fuochi di Goa e del Mozambico. Eppure in quelle esperienze così lontane dall’Italia del “miracolo economico” – e volentieri liberatasi dal fardello africano – il leader del Centro studi Ordine Nuovo vedeva, specialmente nei fatti di Francia, la possibilità di nuove sintesi politiche e culturali. Come dimostrò l’epopea dell’OAS e dei pieds noires, la tesi aveva una sua validità.
Faticoso per molti – ma non per tutti, e soprattutto non per i giovani – esplorare l’esperienza mussoliniana in modo scientifico ma appassionato e ritrovare nelle pagine del capolavoro di Rauti e Sermonti – “La Storia del Fascismo” – spunti, riflessioni, idee per l’attualità e il futuro.
In anticipo su Vivarelli e in parallelo con De Felice, Pino e Rutilio offrirono un affresco raffinato e complesso e un’interpretazione inattesa quanto robusta del Ventennio, rintracciando le sue origini nella grande cultura europea “della crisi” di fine Ottocento, indagando i diversi rivoli che confluirono – da destra ma anche da sinistra e dalla sinistra più estrema – nel grande fiume del 1922. Con i sei volumi del Cen Rauti, sebbene distante – e, da antico evoliano, sempre diffidente – dalle posizioni di “socialismo nazionale”, rivendicava al Fascismo una carica rivoluzionaria e sociale ben più radicale del marxismo, individuando nel momento mussoliniano una possibilità reale di superamento rivoluzionario del capitalismo. Da qui l’attenzione del Rauti politico verso le fasce più deboli, la condizione operaia e femminile, il suo indagare continuo sulle motivazioni profonde del consenso popolare postbellico al comunismo, il suo rifiuto della xenofobia. Ma non solo. Le sue riflessioni sociologiche erano sempre accompagnate da un’inguaribile e continua curiosità verso la modernità, la tecnica, i nuovi saperi. Nonostante le sue origini rurali – sempre rivendicate con orgoglio –, l’uomo era affascinato e intrigato dalle trasformazioni epocali. Uno sforzo che ritroveremo – dirompente e lucidamente radicale – negli editoriali di “Linea” e nelle mozioni congressuali di Linea Futura e Andare Oltre.
Con gran rabbia di molti suoi critici “interni”, incardinati su posizioni passatiste e consolatorie, il direttore di “Linea” ottenne gli apprezzamenti più importanti dagli avversari politici e dagli studiosi antifascisti. Tra i tanti, Giorgio Bocca – allora ancora in regime di sobrietà – e la sua entusiastica recensione de “La Storia del Fascismo” e Pierre Milza. Nel suo “Dizionario dei Fascismi” – un lavoro denso quanto fazioso – il ricercatore francese traccia dell’uomo un profilo rispettoso e attento: «Un profondo conoscitore della cultura fascista, in un partito che aveva sempre privilegiato l’attivismo, probabilmente Rauti era, e tale sarebbe rimasto, l’unico dirigente di una certa levatura intellettuale… aveva focalizzato il suo interesse su alcune problematiche patrimonio della cultura di sinistra, come l’ecologia, seguendo con molta attenzione il dibattito europeo sulla Nouvelle Droite… il partito ipotizzato da Rauti avrebbe dovuto assumere espliciti connotati antisistema introducendo nella politica neofascista le tematiche ecologiste, antiamericaniste e anticonsumiste. Un’ambiziosa rivoluzione culturale».
Nel 1991, l’ipotesi politica rautiana – come la barca dell’amore di Majakovskij – s’infranse contro gli “scogli della quotidianità”. Un tempo finiva e altre parole d’ordine – vincenti o, magari, solo fortunate – s’imponevano per poi, vent’anni dopo, dissolversi. Nel nulla. Ma, per chi sa vedere e capire, sull’orizzonte si stagliano le linee di vetta intraviste da “Pino”. Nitide e scintillanti.