Le insidie della politica 2.0: il falso consenso
Tu chiamale, se vuoi, le insidie del web. Prateria dove scorrono in libertà idee e stupidaggini, verità monche e manipolate, dissacrazioni e consacrazioni virtuali. Beppe Grillo ne è stato il re fin quando Marco Camisani Calzolari, docente di linguaggi digitali allo Iulm, non ha provato a detronizzarlo denunciato che la metà dei suoi followers sono finti, cioè non corrispondono a persone in carne e ossa ma a programmi digitali che “gonfiano” il consenso sulla rete “costruendo” fenomeni politici. Un dato che inficia la tanto decantata “democrazia del web”, fondamento teorico e pratico del successo del Movimento 5 Stelle. Grillo ha replicato minando la legittimità del docente denunciatore: è un consulente di Berlusconi, ha spiegato, è lui che ha realizzato il network www.forzasilvio.it, ergo non è credibile. Calzolari non è arretrato di un millimetro, continuando a gettare cattiva luce sui “grillini” e sostenendo di essere stato insultato sulla rete dai seguaci dell’ex comico, senza che il gran capo prendesse le distanze. Il professore contro il comico: un duello che è sbarcato anche sulla stampa internazionale. Del caso si sono occupati prima “The Guardian” e poi il “Daily Telegraph”. Falsificare i dati dei followers o dei likers su Fb equivale a diffondere sondaggi falsi, a truccare il marketing politico ma le denunce come quella di Calzolari, anziché dare regole a un mondo che per definizione è senza regole, rischiano di delegittimare la rete nel suo complesso: tutti acquistano falsi seguaci, quindi tutti mentono, quindi la comunicazione sul web è per definizione inattendibile.
Ma c’è anche chi, come il blogger Silvio De Rossi, ridimensiona tutta la faccenda: «Vi chiedo: un Twitter con 100mila follower finti può comunicare al mondo un messaggio? A mio avviso per niente. Il messaggio arriverà solo ai 10, ai 100 follower veri. Alle persone reali. Ma il mondo della pubblicità non perdona: "Lui ha 10mila fan, noi solo 3mila. Dobbiamo superarli subito". E allora si comprano i fan».
La ricerca di Calzolari testimonia dunque una realtà conosciuta ai frequentatori della rete: non sono solo i politici ad avere nel numero dei propri seguaci Twitter una consistente percentuale di profili «finti» appartenenti non a persone ma a Bot, cioè programmi digitali. Anche tra le aziende, infatti, scatta la gara a chi ha più follower e poco importa se poi di fatto non esistono. Ikea si attesta come l’azienda internazionale in Italia con la percentuale di follower-bot più alta (45,92%), seguita da Vodafone (38,77%), 3 Italia (35,80%) e Nokia (35,70%).
Come risolvere il dilemma? Qualcosina potrebbero dirla anche i superesperti dell’authority sulla comunicazione ma poiché appaiono del tutto disinteressati al problema occorre ripiegare sull’analisi fai-da-te. Se il marketing politico punta sulla quantità, cioè sul numero dei seguaci del politico in rete, la tanto decantata democrazia della rete possiede forza in base al principio dell’interattività. È il dialogo, l’interconnessione costante a fare della rete un’agorà digitale da monitorare costantemente. Il guaio di molti seguaci della politica 2.0 è che appunto si preoccupano di avere seguaci (veri e falsi che siano) e non di mettersi alla pari nel confronto con il “pubblico”. Una pratica che rischia di far perdere tempo e che determina altri inconvenienti visto che non tutti gli utenti seguono il galateo della netiquette (le regole per il buon uso dei social network). Gli effetti sono fastidiosi, come testimoniava ieri Luigi Manconi su “Il Foglio”, raccontando di un signore che lo aveva raggiunto sulla sua pagina Facebook criticando le sue “pippe sociologiche” e accusandolo di dire cose irrilevanti (“cazzate” nel linguaggio sbrigativo di Fb). Il punto, dice Manconi, non è però l’appartenenza politica del suddetto signore ma il fatto che «un tizio di cui nulla so e di cui nulla voglio sapere decide di entrare a casa mia senza bussare e senza presentarsi al solo fine di insolentirmi…». Manconi ne ricava che si tratta di una scheggia di un gigantesco «flusso di rancore» che percorre il web, e che dà corpo ora all’anti-casta, ora all’indignazione viruale, ora a vere proprie forme di invidia sociale. Nulla a che fare con la vecchia cara «lotta di classe», piuttosto si tratta di un «oscuro livore» che si concretizza anche in violenza verbale e in «petulante invadenza». È la faccia peggiore della democrazia del web, la stessa di cui Grillo si avvale per lanciare i suoi proclami, per alimentare il suo consenso con il quale, poi, non sa bene che fare tranne portare acqua al fiume limaccioso di una rabbia inconcludente.