Cina: pena di morte per traffico d’arte o contrabbando

13 Feb 2012 20:08 - di

La fede cristiana è sotto tiro non solo in tutto il mondo arabo, in guerra contro Roma da più di mille anni, ma anche in Africa settentrionale e centrale, in India, in Corea e soprattutto in Cina. Per i più recenti e sanguinosi episodi che sono costati la vita di centinaia di fedeli cristiani, è sufficiente leggere le precise e documentate corrispondenze per Il Giornale di giornalisti coraggiosi e di prima linea come Fausto Biloslavo e Gian Micalessin. In Nigeria, la strage di Natale ha visto più di cento fedeli massacrati (di cui 40 fatti letteralmente a pezzi) da un pullmino imbottito di esplosivo fatto saltare all’uscita dalla Messa natalizia. In Somalia, la persecuzione anticristiana è attuata dalle milizie Shabab, in Nigeria dai Boko Haram, in Algeria dall’organizzazione terroristica Al Qaida Maghreb, in Egitto (che pure è considerato il Paese più civile dell’Africa) dai seguaci del defunto Osama Bin Laden, guidati dal suo medico Al Mowafi.
Ma è la Cina a rappresentare il peggio della persecuzione anticristiana, come hanno sottolineato, in un convegno svoltosi a Roma, il presidente della “Italian Laogai Research Foundation” Antonio Brandi e padre Bernardo Cervellera, missionario del Pime. Può bastare un dato: il 72% delle condanne a morte eseguite nel corso del 2010 nei 25 Paesi che ancora la prevedono, sono state eseguite in Cina.
Oggi migliaia di persone, accusate spesso nel corso di processi sommari, sono condannate a morte in Cina mediante fucilazione, eseguita di frequente dinnanzi ad un pubblico appositamente convocato che include studenti universitari, scolaresche delle scuole medie e parenti dei condannati, cui inoltre spetta l’onere di pagare il costo delle pallottole usate contro i loro congiunti. Continua dai tempi di Mao Tse-Tung l’uso di trasportare i condannati al luogo dell’esecuzione su autocarri scoperti. Nulla è cambiato dai tempi della Rivoluzione francese. Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie internazionali segnalano da tempo questa orribile pratica. Amnesty International ha denunciato l’uso, in continuo aumento, di iniezioni letali per uccidere i prigionieri e facilitare l’espianto di organi freschi, nonché gli alti profitti derivanti dalla loro vendita.
Ma quali sono i reati per i quali, in Cina, si viene condannati a morte? Fino a qualche anno fa, quelli previsti dal codice penale per la pena capitale erano venti, oggi sono sessantotto. Tra questi ultimi: frode fiscale, contrabbando, traffico d’arte, violazione di quarantena se ammalati, reati per danni economici, appartenenza anche indiretta ad «organizzazioni illegali».
Ma veniamo alla persecuzione di tipo religioso. In una ricerca del suo centro studi, dal titolo «I laogai, le esecuzioni capitali e la vendita degli organi umani in Cina», Brandi ha spiegato che attualmente in Cina diversi milioni di persone sono detenute, sfruttate e torturate nei laogai. Con questo termine (che letteralmente in cinese significa «riforma attraverso il lavoro») si designano infatti dei moderni campi di concentramento in cui esseri umani, costretti a vivere in condizioni di assoluta prostrazione, fisica e morale, vengono obbligati a lavorare anche 16 ore al giorno con lo scopo di fabbricare prodotti per il regime comunista cinese in spregio di ogni tutela sociale.
Nel 2008 ne furono censiti circa 1400, ma nessuno conosce oggi il loro numero esatto. La loro creazione risale a Mao Tse-Tung (1893-1976) che li istituì nel 1950, sotto consiglio degli alleati sovietici. Vi sono rinchiusi dissidenti del regime (politici e civili) nonché religiosi di ogni genere (monaci tibetani, vescovi cattolici, pastori protestanti), oltre a criminali comuni. Per il regime di Pechino i laogai hanno un duplice obiettivo: da una parte opprimere i dissidenti politici e fiaccare la resistenza all’ideologia del partito unico, dall’altra avvalersi di forza-lavoro a costo zero.
Una approfondita analisi della situazione cinese sotto il profilo della repressione antireligiosa è stata compiuta da padre Cervellera, per il quale la Cina è ancora oggi «un Paese comunista perché si rileva ovunque un forte controllo sociale sulla vita delle persone». Il controllo viene esercitato sugli aspetti più intimi della vita privata: dalla libertà di associazione (sottoposta ad autorizzazione governativa) a quella di culto (ugualmente limitata) arrivando perfino a internet (molti siti considerati non in linea con l’ideologia del regime vengono oscurati).
Particolarmente allarmanti sono le condizioni in cui i vescovi cattolici che vogliono restare fedeli al Papa sono costretti a vivere: l’obbedienza «spirituale» di un cittadino cinese a uno Stato straniero (la Santa Sede) viene infatti considerata come un tradimento della patria e punita con pene severissime. Numerosi sono infatti i vescovi cattolici scomparsi da decenni e di cui non si sono più avute notizie: per molti di loro l’ipotesi più probabile è quella della morte violenta con l’immediata cremazione del corpo per far perdere ogni traccia del crimine commesso. Padre Cervellera ha tuttavia informato come negli ultimi anni, a fronte di questa situazione di persecuzione, o forse proprio per questa, vi sia stata una «imponente rinascita religiosa» che ha visto le chiese riempirsi come non mai.

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