Le famiglie tirano la cinghia (e la “cura Monti” fa paura)
Come in un film. Una famiglia è seduta in cucina, le luci sono fioche, i fogli sul tavolo. Si fanno i conti e i conti non tornano. Per una notizia positiva ce ne sono tre negative. E in tv, quasi come sottofondo, il tiggì rende l’atmosfera ancora più cupa, lo spread, la Borsa, i saldi azzoppati. Meglio racimolare qualche risparmio, anche se qualcosina in più nello stipendio c’è. Effetto di una campagna di pessimismo che è durata mesi col solo obiettivo di disarcionare il Cavaliere. Lo confermano i dati Istat relativi al terzo trimestre del 2011: il reddito delle famiglie è in aumento, ma la capacità di spesa è in netta diminuzione. Segno che, tirando le somme, inflazione e imposte hanno fatto la differenza. Emerge un aumento di quello che la famiglia tipo percepisce come incasso di salari, stipendi pensioni o altro pari allo 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente, cifra che farebbe pensare a un arricchimento. Quando dal dato lordo si passa però al reale potere d’acquisto degli stessi nuclei familiari si scopre che questi hanno fatto un percorso a ritroso: meno 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente e meno 0,1 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010. Nella media nazionale siamo tutti più poveri e questo aiuta a capire il perché del pessimismo della gente, preoccupata delle incognite legate al futuro che avanza. Sono i segnali della crisi internazionale, ma sono anche i risultati di una politica interna tutta all’insegna dei sacrifici che ci sta facendo vivere una stagione grigia. C’è da scommettere, infatti, che le cifre saranno ancora peggiori quando si tratterà di tirare le somme della manovra Monti. Uno scenario, quello italiano, che si inserisce in una situazione che vede il Pil dei Paesi Ocse crescere da luglio a settembre del 2011 dello 0,6 per cento rispetto al secondo trimestre dell’anno, trainato in gran parte dai consumi privati (+0,3 per cento), mentre nell’Italia, che registra una flessione del Prodotto interno lordo dello 0,2 per cento, i consumi privati scendono dello 0,1 e quelli della pubblica amministrazione dello 0,2. Unica nota positiva le esportazioni che fanno registrare un incremento dello 0,8 per cento. Noi, in sostanza, spendiamo di meno mentre altrove, avunque ci sia crescita (Giappone, Canada, Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito) a fare da motore sono proprio i consumi.
Ancora una farsa sull’articolo 18
L’imperativo è crescere. Non si esce da questa situazione se non incentivando i redditi e creando occupazione. Invece finora abbiamo pensato soltanto a tirare la cinghia. Ecco perché gli occhi sono tutti puntati sulla fase due del governo Monti: liberalizzazioni, mercato del lavoro e riforma fiscale in primo piano. Peccato che della terza di queste riforme non si intravedono neppure i contorni, mentre la prima sta spaccando il Paese e, comunque non affronta i problemi veri che sono quelli legati ai settori dell’energia e delle utilities, e la seconda rischia di tradursi in un nulla di fatto a causa del veto delle organizzazioni sindacali e soprattutto della Cgil: hanno detto di no all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e continuano a dire di no anche a modifiche parziali come la soglia di 50 dipendenti al di sopra del quale applicare il reintegro. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, dà subito lo stop: «Bisogna sgombrare il campo da ciò che leggiamo sui giornali relativamente all’articolo 18 o la trattativa è fallita prima di cominciare». Posizione condivisa nella sostanza da Raffaele Bonanni che usa parole diverse per ribadire lo stesso concetto: «Il governo – afferma – non deve aver paura di discutere». Concetto che Luigi Angeletti si incarica di precisare ulteriormente: «Non si può – sostiene – continuare così tra documenti anonimi, indiscrezioni, annunci e smentite». Il provvedimento sulle liberalizzazioni, che dovrebbe essere varato il 19 gennaio, ha quindi la strada ancora sbarrata, anche perché Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl, annuncia di condividere le valutazioni di Cgil, Cisl e Uil.
Liberalizzare non significa risparmiare
Ma siamo sicuri che le liberalizzazioni sono la strada giusta per risparmiare e abbattere i costi dei servizi? A sentire i consumatori non ci sono dubbi, ma la Cgia di Mestre è convinta del contrario. L’ufficio studi dell’associazione ha fatto qualche conto e ha reso noto che quelle finora fatte in Italia ci sono costate in venti anni ben 110 miliardi. Qualcosa come 286 euro l’anno a famiglia che, tenendo conto del tempo trascorso, raggiungono un ammontare complessivo di 4.576 euro. Un conto che ci viene presentato dalle aperture sulle assicurazioni, sui mezzi di trasporto, sui carburanti, sul gas, sui trasporti ferroviari e urbani e sui servizi finanziari. Qualche risultato positivo è arrivato soltanto dall’apertura del mercato dell’energia elettrica. I maggiori costi a carico delle famiglie derivano dalla differenza tra i prezzi e le tariffe riferiti al momento della liberalizzazione (con l’aggiunta dell’inflazione media registrata ogni anno) e i prezzi e le tariffe effettivamente applicati ai consumatori oggi. Tutto colpa delle liberalizzazioni? Non proprio. Gli artigiani di Mestre fanno presente che bisogna comunque tenere conto che in campo energetico ci sono da registrare anche gli aumenti delle materie prime (petrolio e gas), il forte livello di tassazione, nonché le ricadute del tasso di cambio euro/dollaro.
La Francia perde la tripla A
Doccia fredda sui mercati. Nel primo pomeriggio di ieri è arrivata la notizia, diffusa dall’Agence France Presse (non confermata né smentita dalla portavoce del governo francese Valerie Pecresse), che Standard & Poor’s ha declassato la Francia che avrebbe dunque perso la tripla A. Stessa sorte anche per l’Austria, mentre sarebbero state risparmiate Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Una notizia annunciata più volte e in qualche modo attesa, ma che ha finito per avere ripercussioni sui mercati (per Sarkozy «è da perversi tagliare ora»), con Milano che ha chiuso in calo dell’1,2 per cento. Poi la decisione presa è stata tramutata in una semplice intenzione. S&P non ha ancora declassato, è pronta a farlo. Quindi la comunicazione della stessa agenzia di rating che conferna il declassamento. Anche Italia e Spagna scendono di due livelli. Fino alle prime ore pomeridiane le piazze avevano beneficiato del positivo esito dell’asta dei Btp triennali con l’assegnazione di tutti i tre miliardi di titoli in offerta e rendimenti scesi al 4,83% dal 5,62 di fine dicembre. Una schiarita che segue quella già vista sui Bot a breve nella giornata di giovedì. Lo spread, dapprima in flessione, è di nuovo risalito fino a collocarsi poco sopra i 500 punti base (501), segno evidente che i mercati restano scettici.