Il maxiprocesso alla mafia riletto dal protagonista

4 Gen 2012 20:17 - di

A venticinque anni dal primo grande processo a Cosa nostra, arriva adesso l’importante e inedita testimonianza del giudice Alfonso Giordano che del maxiprocesso alla mafia fu il presidente. Un processo storico, sia perché resta il più imponente procedimento penale attuato in Italia dal dopoguerra a ora verso un’organizzazione criminale, sia perché agli occhi dell’opinione pubblica ha rappresentato la risposta in grande stile dello Stato verso l’arroganza del contropotere mafioso, in un’epoca in cui una certa parte della società negava addirittura l’esistenza stessa della mafia come struttura organizzata.
Ha il sapore del memoriale il libro intitolato Il maxiprocesso venticinque anni dopo, appena uscito per Bonanno Editore, nel quale il presidente Alfonso Giordano condensa ricordi e retroscena del maxiprocesso, in cui finirono alla sbarra ben 476 uomini d’onore, fra killer, padrini e capi storici della mafia siciliana. Iniziato a Palermo nel febbraio del 1986 e terminato nel dicembre dell’anno successivo, l’evento giudiziario del secolo si concluse con la condanna per ben 358 mafiosi, diciannove dei quali finirono all’ergastolo, e con complessivi 2665 anni di carcere, inflitti dalla Corte d’assise.
In 340 pagine, il giudice mette in atto una minuziosa ricostruzione di fatti, circostanze e protagonisti del più importante processo a Cosa nostra. Un libro, scritto non da uno dei tanti, ma dal magistrato chiamato a presiedere lo storico dibattimento che cambiò il volto della lotta alla mafia e che inflisse il primo duro colpo a Cosa nostra. Affiancato dal giudice a latere Piero Grasso (dal 2005 procuratore nazionale antimafia), Giordano racconta i momenti più difficili del processo, fin dalla fase delle indagini, condotte dal celebre “pool antimafia” ideato dal giudice Antonino Caponnetto e di cui facevano parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Le accuse raccolte dal pool, durante il processo vennero sostenute dai pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, nelle cui requisitorie era riconosciuta, per la prima volta, l’esistenza della cupola, una commissione di padrini a capo della mafia, di cui aveva raccontato nei dettagli al giudice Falcone il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. Quest’ultimo fu fatto venire dal Brasile in gran segreto per deporre davanti alle centinaia di boss rinchiusi nelle gabbie della cosiddetta “aula bunker”, una struttura appositamente costruita al fianco del carcere palermitano dell’Ucciardone e sorvegliata giorno e notte dalle forze dell’ordine e dai mezzi blindati dell’Esercito.
E non sembra casuale che il libro-memoriale esca proprio adesso, nel ventennale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, grazie ai quali è stata possibile quella minuziosa attività di ricostruzione dei delitti e degli equilibri criminali finita al centro del maxiprocesso.
In quasi 340 pagine, il giudice Alfonso Giordano racconta anche i moti interiori che egli dovette affrontare nel presiedere un processo, che diversi altri giudici palermitani avevano chiesto di non avere affidato per paura di una reazione rabbiosa da parte della mafia: «Fu una lunga preparazione interiore – sottolinea – che azzarderei a definire in un certo modo ascetica, la quale, però, quando il processo incominciò, diede i suoi frutti, giacché ero riuscito a conseguire una serenità che, forse mai, come in quei giorni, aveva presieduto alle mie azioni». Il giudice, che si aiutava con lo Yoga e con la corsa mattutina, non nasconde però il clima cupo che si respirava in quel periodo nel capoluogo siciliano: «Sentivo che forze oscure si muovevano contro di me, facevano di me il loro bersaglio». E non tardarono, infatti, minacce più o meno dirette, come l’anonimo che citofonò all’abitazione del giudice Piero Grasso rivolgendogli frasi intimidatorie o la richiesta avanzata dal “capo dei capi” Totò Riina di eliminare lo stesso presidente Alfonso Giordano, di cui raccontò Giovanni Brusca solo molti anni dopo. Da notare che – come rivela nel libro lo stesso magistrato – il progetto omicida non sarebbe andato a buon fine, a causa della sua abitudine a cambiare sempre il percorso della scorta proprio per depistare eventuali killer.  
Nel suo memoriale, Giordano ricorda l’attenzione riservata al maxiprocesso dalla stampa mondiale, ma anche le pressioni psicologiche che dalle gabbie dell’aula bunker gli imputati esercitavano nei confronti dei loro difensori, incitati ad assumere un atteggiamento processuale duro verso la corte. Sono poi ricostruite decine di altri episodi, fra cui la deposizione del pentito Totuccio Contorno, il drammatico confronto fra Buscetta e il boss Pippo Calò, o l’augurio sibillino formulato alla corte dal capomafia Michele Greco, che raccomandò ai giudici di vivere in pace e serenità sia durante la camera di consiglio che nel resto della vita; e ancora, la sceneggiata di alcune donne che irruppero nell’aula, urlando che il proprio congiunto imputato non era un pentito, o gli scatti di improvvisa pazzia da parte di alcuni detenuti.
E nel libro-memoriale non mancano poi opinioni verso giornalisti, avvocati e altri protagonisti che ebbero un ruolo nel primo grande processo a Cosa nostra.

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