Acab, le mele marce? Colpa dei “camerati”
All cops are bastards (Acab), letteralmente “tutti i poliziotti sono bastardi”, è uno dei motti più in voga tra chi fa della lotta al sistema una bandiera e comunque tra chi fa della guerriglia una pratica quotidiana, in piazza, come negli stadi. Motto del movimento skinhead inglese degli anni Settanta, è diventato anche il titolo del libro pubblicato da Einaudi e scritto da Carlo Bonini nel 2009, che voleva essere un’inchiesta sulla violenza urbana e la gestione dell’ordine pubblico, visti dalla parte degli “sbirri”. Da venerdì 27 gennaio, sarà nelle sale anche il riadattamento cinematografico, con la regia di Stefano Sollima, in una produzione targata Cattleya. Se qualcuno si aspettava un film documentario, niente di più sbagliato. Per non parlare di chi pensava di trovare una pellicola in cui si giustificano tout court le azioni del reparto celere. In realtà, dopo la visione in anteprima per la stampa, quello che non si capisce fino in fondo è il messaggio che si vuole far passare al pubblico.
Acab racconta le gesta di tre celerini, Cobra (Pierfrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini), che vivono immersi nella violenza quotidiana, ma che soprattutto fanno della fedeltà al corpo e ai “fratelli” una ragione di vita. All’interno del gruppo, arriva una nuova recluta, Adriano (Domenico Diele) che alla fine sarà quello più legato ai principi di legalità e ordine dovuti a un uomo che veste la divisa. Tutt’intorno, storie di vita e di attualità, famiglie divise e scontri con lavoratori, fatti di cronaca nera come l’omicidio Reggiani e quello dell’ispettore di polizia Filippo Raciti, il racconto della “macelleria messicana” alla scuola Diaz durante il G8 di Genova, fino all’assassinio del giovane romano Gabriele Sandri, ucciso dall’agente della polizia stradale Luigi Spaccarotella. Ma nell’intreccio non poteva mancare la trama occulta raccontata anche nell’omonimo libro di Bonini, ovvero un racconto macchiettistico di una destra violenta, razzista, xenofoba e populista. Si va dal gruppo di destra radicale che si vede dentro una fantomatica “moschea occupata” e veste un look degno dei “nazisti dell’Illinois” al politico in campagna elettorale che fa promesse in nome di slogan del tipo “padroni a casa nostra”, con un chiaro riferimento alla campagna elettorale dell’attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Durante tutto il film, i riferimenti al mondo di destra più deteriore sono chiari, come se la violenza portata per strada, da estremisti e dagli stessi poliziotti, fosse solo esclusivamente colpa di un’indole neofascista (dimenticando anche che il primo sindacato di polizia è invece quello vicino alla Cgil). Il quadro che ne viene fuori è a dir poco sconfortante: deresponsabilizzazione delle forze dell’ordine, banalizzazione di fatti gravi e tanta retorica che fa da filo conduttore.
“Questa volta i conti ce li regoliamo da soli”, “appena becco chi è stato, ci pensiamo noi”, “questa sera niente colleghi, pareggiamo noi i conti”: queste alcune delle frasi che fanno passare Cobra, Negro e Mazinga come i giustizieri della notte, una sorta di banda metropolitana che quotidianamente calpesta le regole pur vestendo la divisa. E che il più delle volte la fa franca e che si copre vicendevolmente. Anche qui il messaggio non è chiaro: sono tre mele marce solo perché di destra? O è un sistema che porta all’esasperazione lo “spirito di corpo” e quindi avalla la violenza dei tutori dell’ordine?
Inoltre, anche le ricostruzioni dei fatti sono poco chiare e fanno vacillare il film davanti a qualunque occhio che sia stato testimone di scontri di piazza o che abbia una minima conoscenza degli ambienti ultras o della destra radicale. Tanto per fare un esempio, desta stupore il racconto di estremisti romani di destra infiltrati tra le fila dei tifosi del Napoli. Nel corso del film, poi, si susseguono “riunioni” ombra a casa di un celerino in cui si portano all’esasperazione cameratismo e fratellanza, “non siamo colleghi, siamo fratelli. E solo dei fratelli ci si può fidare”. E il filo rosso è sempre l’odio per il migrante o comunque il diverso, con l’omicidio di Giovanna Reggiani che sarebbe la scintilla che fa esplodere il razzismo e che, anche se non viene detto direttamente, porta la destra al Comune di Roma.
Un’operazione culturale che rischia di sciogliere in un’unica melassa fatti gravi che meriterebbero alcune riflessioni importanti: gli abusi di polizia come la violenza di strada non possono essere trattati solo con retorica e luoghi comuni. Oltre alla splendida colonna sonora che annovera pezzi dei Clash, Chemical Brothers e White Stripes, è degna di nota la scena in cui i celerini, durante gli scontri nella notte dopo l’omicidio Sandri, leggono il nome del luogo dove stavano operando ovvero “piazza Maresciallo Diaz” e il riferimento a Genova 2001 è chiaro: “Ti ricordi quella scuola, come si chiamava, Diaz?” “Sì e stasera paghiamo il conto”.
Forse è stata persa l’ennesima occasione di raccontare in maniera consapevole cosa significa portare una divisa e dall’altra parte quanto è grave subire un abuso proprio da parte dei tutori della legge. Peccato, anche perché questo film è stato realizzato in collaborazione con Rai Cinema e quindi qualcuno lo ha anche considerato meritevole di una qualche valenza culturale per il Paese tutto.