«Il precariato? Combattiamolo … licenziando»
Qui si parrà la tua nobilitate. La manovra c’è, l’aumento delle tasse pure, le riforme no (il percorso potrebbe iniziare una volta archiviato il capitolo stangata). Ma c’è sempre la patata bollente, quella “rivoluzione” del lavoro che destinata a provocare la rottura con i sindacati e a mettere in serio imbarazzo il Pd, costretto a fare l’equilibrista fra l’appoggio a Monti, i mal di pancia di larghe fette di parlamentari e la rivolta della base. Quando infatti il governo Berlusconi annunciò una svolta – che tra l’altro era più morbida e sottoposta al vaglio di Cgil & C. – ci fu la solita insurrezione demagogica e tutto venne sintetizzato in due paroline magiche, utili alla propaganda della sinistra: «Licenziamenti facili». Ora la questione è tornata prepotentemente alla ribalta, con alcuni problemi non piccoli per Bersani: a volerci mettere le mani è il governo dei tecnici (che lui santifica), non c’è il “mostro” Berlusconi da sbattere in prima pagina, i militanti sono furibondi, la Camusso e Vendola hanno annunciato la lotta senza quartiere.
Iperprotetti addio
Elsa Fornero, ministro del Welfare, va all’attacco dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che vieta i licenziamenti in mancanza di giusta causa nelle aziende co0n più di 15 dipendenti) e afferma che momento di dire basta «a contratti da precari per i giovani». Traducendo dal politichese significa che l’obbiettivo è un contratto unico per tutti, a tempo indeterminato, a cui, giocoforza dovrà poi accompagnarsi la possibilità di mettere in discussione la permanenza sul posto di lavoro. Non ci saranno più lavoratori precari, ma tutti saremo precari almeno un po’, perché dovrebbe venire inserita la possibilità di mandare a casa chi è già occupato, ad esempio richiamandosi ai problemi economici dell’azienda. La proposta non è nuova: l’ha già fatta Maurizio Sacconi suscitando proteste a non finire. Quelle stesse proteste che ieri hanno salutato l’uscita della Fornero sul Corriere della Sera, con la Cgil già in trincea ad affermare che «l’articolo 18 non si tocca» e Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl che invita il governo a «pensare ai giovani e alle assunzioni», piuttosto che a come licenziarli. E qui sta la discriminate vera, perché quelli che i sindacati hanno già battezzato «licenziamenti facili», di fatto rappresentano invece il tentativo di allargare l’area del lavoro anche a giovani e donne. Perché se non si aumenta la torta, se non si cresce, anche la dolorosissima riforma delle pensioni è destinata a non avere futuro. Elsa Fornero prende il toro per le corna e sostiene che «non possiamo permetterci la stagnazione e tanto meno la recessione. Il punto è – afferma – che è il lavoro che ti dà la pensione. Un buon lavoro ti dà una buona pensione». Già, il problema è che i sindacati contestano l’aumento graduale dell’età fino a 70 anni e contestano il fatto che per poter assumere si deve anche licenziare. Quello stipendio che la Fornero vorrebbe legare alla sola produttività, poi, lascia francamente perplessi. E suscita allarme il fatto che il ministro del Welfare sembri contestare la peculiarità che «da noi lo stipendio sale con l’anzianità, mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all’età della maturità professionale, ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo». Dette così le cose puzzano di “rottamazione” lontano un miglio.
Ammortizzatore cercasi
Anche per questo che Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl, invita a non partire «con il piede sbagliato e a iniziare dagli ammortizzatori sociali e dalle vere distorsioni del mercato, generate proprio dall’assenza di quel pilastro fondamentale della riforma Biagi». Secondo Centrella il derby «garantiti contro non garantiti» rappresenta una mistificazione della realtà che serve a far accettare all’opinione pubblica la libertà di licenziare relegando i sindacati nella fazione dei reazionari». Una posizione che Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, definisce un «tabù». L’invito ai sindacati è di affrontare «la riforma del mercato del lavoro con molta serietà, pragmatismo e senza ideologia». «Abbiamo rigidità in uscita – ha aggiunto – che non hanno uguali in Europa, e, in alcuni casi, anche rigidità in entrata che penalizzano giovani e donne». E gli ammortizzatori sociali? «Vanno rivisti almeno in parte», concede la Marcegaglia, che invita le organizzazioni sindacali a «una trattativa seria e pragmatica». La Camusso, però, risponde con un no secco: «Si parli di lotta al precariato e non di libertà di licenziare, l’articolo 18 non si tocca». E Fulvio Fammoni, che via Corso d’Italia ha la delega per il mercato del lavoro, dice di voler discutere di «lotta alla precarietà» e sottolinea che la Cgil non ha nessuna intenzione di rinunciare all’articolo 18.
Dialogo tra sordi
Non un semplice distinguo, quindi, ma una differenziazione di fondo. Secondo la Fornero la flessibilità e il contratto unico servono proprio per tagliare la testa alla precarietà, mentre la Cgil non condivide questo punto di vista e ritiene che il lavoro precario si cancella facendolo costare di più rispetto a quello a tempo indeterminato. Quanto al contratto unico Fammoni afferma che «non serve». «Un contratto formativo di ingresso per i giovani – sostiene il sindacalista – esiste già, è l’apprendistato riformato che dura solo tre anni ma che non viene usato perché cannibalizzato da forme di lavoro come i falsi stage, i tirocini, le partite Iva, i vaucher, i contratti a chiamata». Argomentazioni a cui il segretario del Pdl, Angelino Alfano, risponde con l’affermazione che «non bisogna mai dimenticare che dietro ogni numero c’è una persona». Una cosa è disegnare le strategie, un’altra mettere insieme la normativa seria per tradurre la teoria in fatti concreti. Il che non vuol dire che «un Paese democratico e civile non può rinunciare all’articolo 18», come sostenuto ieri da Susanna Camusso, ma vuole certamente dire che non si può licenziare un lavoratore perché sta antipatico, ha opinioni politiche o fa sindacato. È diverso, però, se l’azienda versa in difficoltà economiche e rischia di chiudere. In questo caso meglio salvare il salvabile, mettendo in conto, come prevedeva anche Maurizio Sacconi, un equo indennizzo per chi viene chiamato ad abbandonare il posto di lavoro. Del resto è la stessa Commissione europea che ci chiede di mettere mano alla nostra normativa sui licenziamenti. Di fronte a questa necessità i sindacati non si possono limitare a chiudersi a riccio. Così come non possono pensare di risolvere tutto, come hanno fatto Ugl, Cgil, Cisl e Uil, con i no di principio e gli slogan contro il governo. «Contro di me parole preoccupanti», ha affermato il ministro Fornero che si e detta «dispiaciuta e sorpresa per un linguaggio che pensavo appartenesse a un passato del quale non possiamo certo andare orgogliosi». Altro che dialogo, insomma, il vero confronto sulla riforma non è ancora iniziato e già il contenzioso assume tutti i connotati di un vero e proprio scontro.