Ma l’Italia è davvero solo caste e parassiti?
Ma siamo davvero un popolo di caste, parassiti ed evasori? E i santi, gli eroi, i navigatori, che fine hanno fatto? È tutta una questione di “racconto” o c’è anche della sostanza nell’uno e nell’altro modo in cui ci rappresentiamo e ci siamo rappresentati? A chiederlo un po’ in giro oggi, la risposta che emerge è una: sì, siamo in effetti un popolo di furbetti. Anzi, meglio ancora, siamo tanti furbetti che si arroccano ciascuno nelle proprie posizioni, salvo poi auspicare tutti che qualcosa cambi. Se poi pensiamo di poterci assolvere prendendocela con la nostra classe dirigente è meglio che cambiamo obiettivo, perché le classi dirigenti sono sempre espressione del Paese diffuso. Eppure, c’è ancora qualcuno che ci crede e che dice – di più: scrive – che una via per la salvezza esiste.
Marcello Veneziani è fra quelli che il quadro lo vedono fosco assai. Non chiude totalmente la porta alla speranza ma, insomma, lo fa parlando di «disperato ottimismo». «Sono un sostenitore dell’identità collettiva italiana e sono convinto che non si possa fare di ogni erba un fascio, però – spiega – è vero che la tenuta media del nostro Paese rispecchia la classe dirigente. La furbizia vi alberga da tempo, la diserzione dalle responsabilità è moto diffusa. La tenuta del popolo italiano non è esaltante». Quanto alla possibilità di un “riscatto”, di una via d’uscita, il punto per Veneziani è proprio che «la cosa più disperante di questa fase è la mancanza di riferimenti, di modelli ed esempi positivi». «Per una via d’uscita – aggiunge – bisogna avere il coraggio di mettere mano a rivoluzioni e non solo ad accomodamenti, vanno riscoperte funzioni importanti come l’educazione o la cultura popolare, che sono cadute in disuso da diverso tempo. Bisogna tentare queste vie con disperato ottimismo, cercando di trarre motivi positivi per percorrerle, anche se – conclude Veneziani – non ne vedo di particolari».
Altra opinione: quella di Anselma Dell’Olio, giornalista americana sposata con Giuliano Ferrara. «Ma figuriamoci, questo – dice – è un po’ un luogo comune del nostro tempo, sono discorsi da bar, inutili, sciocchi». Niente entusiasmi, però. Il luogo comune non è sul carattere degli italiani, ma sul fatto che la classe dirigente non ne sarebbe all’altezza. «I governanti non sono migliori del popolo che guidano», sottolinea anche la Dell’Olio. Tornando invece alla domanda iniziale, a una persona che può guardarlo anche dal di fuori, questo nostro Paese appare davvero come viene rappresentato? «Diciamo che in parte è così. Questo modo di fare appartiene alla storia italiana, che ha visto centinaia di anni di dominio straniero e ha metabolizzato l’idea che si debba sempre sperare in una protezione. Gli italiani ci sperano ancora in una protezione». E se è vero che speriamo anche in un cambiamento, è pure vero che «lo vogliamo non a casa mia». «Si chiede che tutto venga messo a posto, ma – precisa la Dell’Olio – se vengono toccati i privilegi miei, di mia moglie, di mio cognato allora non va bene. C’è molto particolarismo e questo viene da un antico senso di sconfitta, dall’idea che con il merito non si va avanti». «Effettivamente noi siamo il Paese della santa raccomandazione», sottolinea la Dell’Olio, usando il pronome «noi» quando parla degli italiani. «C’è poca fiducia nel fatto che uno ce la fa col merito, che in effetti è un po’ opzionale. Qualcuno ce la fa, ma bisogna sempre faticare molto. Tutto questo porta a un certo tipo di parassitismo. Come si cambia non lo so, certo è – conclude – che alla base c’è che l’Italia non è un Paese meritocratico. Penso che tutto derivi da lì».
Sandro Fontana, docente di Storia contemporanea, ride bonariamente quando sente parlare di popolo di evasori, furbi, ecc. ecc. «Ma un po’ siamo così», spiega. Sfuma anche l’ultima speranza di una difesa dell’italianità? Per fortuna no, perché Fontana su questo ha da poco scritto un libro e, per quanto ammetta le nostre debolezze, poi rivendica anche le nostre virtù. Il saggio si intitola proprio così Il Dna degli italiani, ovvero la salvezza nelle virtù del passato (Marsilio, 2011). Con un approccio a cavallo tra lo storico, l’economico e il sociale, racconta di come ci siamo fatti faticosamente Paese, siamo usciti dalla fame e ci siamo conquistati un posto nello scenario mondiale. Dice anche che, poi, ci siamo inebriati di questa nostra crescita, convincendoci che tutto fosse facile e bello. Ora che questa convinzione più che vacillare frana e che nel benessere ci siamo tutti un po’ rammolliti, comunque qualcosa a cui appellarci ancora resta: l’attitudine al risparmio, l’ancoraggio all’economia reale, un certo senso della religiosità, l’attaccamento alla famiglia, la capacità di amare, il richiamo all’appartenenza locale. In passato, spiega Fontana, abbiamo vissuto tutte queste peculiarità come virtù, non è escluso che si possa ritrovare la loro spinta positiva anche per il futuro e con essa, è la tesi espressa nel titolo del libro, «la salvezza».