Dopo il crollo l’emersione di nuovi modelli

10 Set 2011 20:41 - di

Dieci anni dopo il crollo delle Twin Towers. Nel 2001 tutti erano convinti che il mondo sarebbe cambiato. Nel 2011 molte certezze si sono stemperate nel dubbio, e si guarda con speranza al risveglio dei popoli arabi che non mettono al primo punto delle loro aspettative l’odio verso l’Occidente limitandosi a rivendicare condizioni di vita migliori. E i paesi occidentali come se la passano? Possono dirsi finalmente vittoriosi sul terrorismo internazionale o devono fare i conti con altri pericoli, a cominciare da una crisi economica i cui esiti finali nessuno può prevedere?
Nico Perrone, docente di Storia dell’America all’Università di Bari, ritiene che il mondo non sia affatto cambiato dopo l’11 settembre: «Fu un clamoroso atto di guerra, una guerra che ancora non è finita perché il fondamentalismo, nonostante la “primavera araba”, continua a essere una componente di quel mondo che vuole combattere l’Occidente». Non solo, Perrone ritiene che in Libia non sia in atto alcuna primavera: «Lì c’è l’inverno, altro che storie. Noi abbiamo pensato di liquidare Gheddafi incoraggiando una parte dei suoi nemici, che tra l’altro sono anche divisi tra loro. Non scommetterei, pertanto, sul risultato finale di questo esperimento…». Ancora, in obbedienza alla legge non scritta dell’imprevedibilità della storia, mentre le popolazioni arabe vivono un rinnovamento non imposto dall’esterno, i paesi occidentali «sono alle prese con la crisi economica, con la crisi delle ideologie e con le distorsioni della globalizzazione. Tutto ciò – tira le somme Perrone – è il prodotto di una regola che lo stesso Occidente si è imposto e cioè che il denaro viene prima di tutto». E l’America? Nonostante la morte di Bin Laden – osserva Perrone, autore del libro Obama. Il peso delle promesse (Settecolori) – «è in preda a un sommovimento politico determinato proprio dalle delusioni provocate dal nuovo presidente, che è stato un ottimo organizzatore della sua campagna elettorale per poi rivelarsi uguale ai suoi predecessori. In più non ha neanche una maggioranza solida, perché la sua compagine ha perso pezzi».
Si chiude il ciclo aperto con il clamoroso attentato di dieci anni fa? Non ne è convinto Valter Coralluzzo, docente a Perugia di Relazioni internazionali, anche se concorda sul fatto che il radicalismo islamico abbia subìto un duro colpo ad opera del sommovimento a favore della democrazia che si sta verificando in Medio Oriente. «Si tratta di un fenomeno – dice – che va in direzione opposta all’idea di un califfato panislamico che è al centro del progetto jihadista. Tutto questo però non deve rassicurarci più di tanto perché la “primavera araba” rischia di creare buchi neri geopolitici, cioè situazioni di instabilità di cui l’Islam radicale potrebbe approfittare. Dunque la partita è tutt’altro che chiusa, anche a fronte di una capacità di governance dell’Occidente che appare diminuita». Coralluzzo concorda sulla particolarità del caso libico dove non c’è «una tradizione partitica che può sostenere una società civile aperta, per questo penso che il processo di cambiamento vada accompagnato, contrastando anche da noi posizioni di neoisolazionismo come quelle espresse dalla Lega». Tuttavia, anche se la “primavera araba” tiene insieme cose diverse, «un elemento comune c’è e va individuato nell’assenza dalle proteste e dalle rivolte di slogan antioccidentali. Direi anzi che i valori rivendicati sono compatibili con quelli che formano la cultura liberale dell’Occidente». Ma chi e come deve accompagnare questo processo visto che sia gli Usa sia l’Europa non hanno mostrato né compattezza né esatte capacità di previsione? «Non mi iscrivo nella categoria dei declinisti dell’America – osserva Coralluzzo – e penso anzi che abbia ancora la capacità di mantenere un’egemonia anche se certo non ci sarà quel mondo unipolare che molti paventano. Negativo invece il giudizio sull’Europa che non è mai stata capace di parlare una voce unica negli ultimi venti anni. L’unico salto di qualità che ci si può augurare è il recupero del vecchio progetto federalista di Altiero Spinelli perché l’idea funzionalista, quella cioè su cui si basa l’attuale integrazione, si sta rivelando illusoria e non ha portato affatto a una maggiore coesione sul piano politico».
Lo storico Franco Cardini mette a sua volta in guardia dall’idea di un percorso finalistico della storia, per richiamare l’attenzione sui fatti obiettivi: «La storia obiettiva ci dice che il fenomeno dell’11 settembre non ha ricevuto tutte le spiegazioni e le modalità con cui è stato eliminato Bin Laden aggiungono ulteriori ombre. Al Qaeda era e resta una costellazione di gruppuscoli, alcuni dei quali ferocemente nemici tra loro». Anche sul cosiddetto “risveglio arabo” Cardini invita a un’analisi realistica: «Dobbiamo considerare il fatto che la primavera araba coglie in contropiede la classe dirigente dell’Occidente perché la rivolta si rivolge contro governi filoccidentali. Dire che si tratta di una ricerca di una democrazia all’occidentale da parte delle popolazioni arabe è semplicistico anche perché a tutt’oggi sono i media a decidere che cosa dobbiamo sapere e che cosa non dobiamo sapere. Si tace per esempio sugli sviluppi delle rivolte nello Yemen, in Bahrein e in Arabia Saudita. Siamo tutti concentrati sulla Libia dove è avvenuto che la politica inglese e quella francese si è sostituita a quella di un Obama in crisi. L’appoggio ai ribelli in Libia è stata l’occasione colta da Francia e Inghilterra per riprendersi la gestione mediatica del risveglio arabo, sostenendo che quello era un “secondo tempo”, però si trattava di un risveglio fatto contro un regime che conoscevamo da anni e che sapevamo essere violento e corrotto. In Tunisia e in Egitto, invece, c’è stato un vero sommovimento popolare». Che cosa differenzia il caso libico da tutti gli altri? «Le cause scatenanti della crisi libica vengono dall’esterno e maturano dopo la presa di posizione di Gheddafi che, alla fine del 2010, si dice disilluso di tutti i suoi nuovi amici e orientato a cercare nuove amicizie facendo intendere che la nuova amicizia privilegiata avrebbe interessato la Russia». Cardini infine non ritiene che gli Usa siano una potenza declinante: «Gli Usa restano alla testa dei 15 paesi grandi esportatori di armi. È un paese colpito dalla crisi economica ma resta una grande potenza militare. Obama ha fatto promesse probabilmente in buona fede ma non ne ha saputa realizzare nessuna, non è detto che dopo di lui non si ritorni a una politica ispirata al “bushismo” magari con azioni mirate contro Siria e Iran. Sarebbe un errore, perché la vera spina dolorosa di tutto il Medio Oriente è la questione israelo-palestinese e se non si risolve quella è illusorio pensare di dare stabilità a quell’area».   
Che il problema israelo-palestinese sia il vero nodo, quello principale, da sciogliere per chiudere una volta per tutte la cosiddetta “questione araba” lo pensa anche Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano: «I problemi che hanno generato l’11 settembre – dice – sono sempre quelli interni al mondo arabo ma allo stesso tempo lo scenario è cambiato. Il sistema arabo è più autonomo e meno dipendente da fattori esterni. Quelle popolazioni vivono un fermento legato all’insostenibilità del precedente ordine. In questo io intravedo un elemento di cambiamento che mi fa ritenere che quelle della primavera araba non siano ribellioni ma vere e proprie rivoluzioni. In esse confluiscono tante domande, che vanno dal desiderio di giustizia a quello di una maggiore equità sociale e si tratta di questioni universali, che in qualche modo avvicinano i paesi arabi a quelli occidentali». Un ulteriore elemento positivo è fornito dalla circostanza che queste rivoluzioni tagliano l’erba sotto i piedi al terrorismo di matrice islamista e potranno dar vita a un Islam politico diversificato che non necessariamente farà sue istanze radicali. «L’America – conclude Parsi – non è più una potenza egemone ma certo non diventerà un paese marginale. Ci muoviamo verso un orizzonte in cui avremo diverse potenze e sarà un orizzonte di interdipendenza economica e di rivalità strategica. Qualcosa di diverso rispetto all’egemonia Usa ma non necessariamente migliore o peggiore».
È un bilancio problematico quello del decennio che ci separa dall’11 settembre 2001 secondo il filosofo Giacomo Marramao. Un decennio che si è aperto con un trauma che ha fatto prendere coscienza all’Occidente della sua vulnerabilità: «L’Occidente ha capito che non dominava più il mondo e che non valeva più la distinzione tra Occidente e resto del mondo. Il mondo prima dell’11 settembre era unipolare e multicentrico mentre ora sta diventando sempre più multipolare. Esiste una serie di poli destinati a contrastare l’Occidente anche nel modo di governare il processo di globalizzazione. A mettere in discussione il mondo unipolare non sono solo i colossi asiatici, ci sono anche paesi dell’America latina come il Brasile e l’Argentina che hanno problemi opposti ai nostri. Lì non si tratta di governare la crisi ma di governare la crescita. Tutti quesi fenomeni sono correlati con l’11 settembre perché costituiscono le realtà emergenti di un mondo plurale in cui le alternative che si confrontano sono diverse mentre prima dell’11 settembre noi prospettavamo per il futuro un unico modello. Ora queste alternative sfidandosi determineranno la storia del XXI secolo aprendo una fase storica molto complessa. Il contrario della fine della storia ipotizzata da Fukuyama».
Marramao è al tempo stesso convinto che la primavera araba sia stata un fenomeno “spiazzante” rispetto alla rappresentazione del mondo islamico convenzionalmente accettata in Occidente dopo l’attentato alle Twin Towers. «Molti – afferma – ritenevano che il mondo arabo fosse terreno di coltura del fondamentalismo e del terrorismo, invece il fondamentalismo è un prodotto delle élite e non delle masse e il terrorismo è il prodotto dell’élite di un’élite». Nel libro Passaggio a Occidente Marramao spiegava che solo il 20 per cento della popolazione dei paesi arabi aderisce al fondamentalismo e di questo 20 per cento solo una minima parte aderisce a soluzioni di tipo terroristico. «Il resto della popolazione – sottolinea – è desiderosa di libertà e di democrazia ma questi concetti non devono essere intesi secondo gli standard occidentali. Dobbiamo capire che i paesi arabi cercano una loro via alla democrazia che può essere diversa dalla nostra».  
È vero, oggi gli Stati Uniti sono un paese in crisi e quanto sta avvenendo si configura come la fine del secolo americano: «L’alternativa dovrebbe essere l’Europa purché però sia in grado di superare il modello di globalizzazione americano fondato sull’individualismo e sulla competizione». A questo modello, specifica Marramao, «si contrappone quello paternalistico e autoritario praticato nei colossi asiatici mentre noi avremmo bisogno di un’idea di società in cui tra gli individui non c’è solo competitività ma anche solidarietà, in cui il singolo sia in grado di intrecciarsi in una comunità. L’Europa ha nella sua tradizione la possibilità di fare questo, riallacciandosi all’idea della civitas romana. Quell’idea è capace di generare non il modello di un governo mondiale ma un modello multiculturale, a mosaico, in gradi di amalgamare una pluralità di genti, di nazioni e di confessioni». Questa è una possibilità, una speranza che non è detto verrà realizzata, perché la situazione è «polemogena»: «Ritorna la politica dei grandi spazi di cui parlava Schmitt. Una politica che si incarna nelle strategie macroregionali che hanno superato gli antichi nazionalismi e le velleità mondialiste».

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