Si uccide l’ex fedelissimo di don Verzè

18 Lug 2011 19:52 - di

Un alone di mistero circonda il suicidio di Mario Cal, 71 anni, ex braccio destro di don Verzè, morto ieri mattina al pronto soccorso del San Raffaele dopo essersi sparato nel suo ufficio all’interno dell’ospedale di via Olgettina a Milano. Nei giorni scorsi l’ex vicepresidente era stato ascoltato dal pm Luigi Orsi in relazione al buco da quasi un miliardo di euro nei conti del gruppo ospedaliero, ma non risultava indagato. Un piccolo mistero la sua morte perché, al di là delle modalità abbastanza chiare in cui è avvenuta, non avrebbe ragioni fondate e concrete, alimentando di fatto la campagna antiberlusconiana (il San Raffaele è un avanzatissimo campus sanitario alla periferia est di Milano dove il presidente del Consiglio va a curarsi). «Era preoccupato per la situazione del San Raffaele perché non c’è più la liquidità per pagare i fornitori», ha spiegato il suo legale Rosario Minniti. Una preoccupazione eccessiva? Un sogno infranto?
Secondo la ricostruzione degli investigatori, intorno alle 10,30, appena giunto alla fondazione San Raffaele per raccogliere i suoi effetti personali (dato che era dimissionario dalla settimana scorsa), Cal si è chiuso nel suo ufficio, ha impugnato una pistola calibro 38 regolarmente detenuta e si è sparato un colpo alla testa. Ad avvisare i soccorritori è stata la sua segretaria che, dopo aver sentito l’esplosione, è entrata nella stanza trovandolo disteso a terra in una pozza di sangue. Immediato l’intervento del personale sanitario che lo ha portato al pronto soccorso ancora in vita. Il pm Maurizio Ascione ha disposto accertamenti sulla pistola per appurare il perché sia stata spostata da un dipendente e infilata in un sacchetto, anche se qualcuno sostiene che l’arma sia stata messa via durante
l’intervento per soccorrere Cal.
Sono due le lettere lasciate dal suicida: una è indirizzata alla moglie Pina, l’altra alla sua segretaria (in cui l’ex amministratore la ringrazia per i molti anni di lavoro gomito a gomito). L’avvocato Minniti ha riferito che la moglie di Cal «non si spiega questo gesto. Non ha avuto sentore, alcuna avvisaglia, anche perché era un uomo forte». Il legale ha aggiunto che nemmeno le collaboratrici più strette dell’ex vicepresidente del San Raffaele si erano mai accorte delle sue intenzioni. Lo stesso avvocato Minniti ha confessato di essere rimasto fortemente stupito: «Non credevo che potesse succedere una cosa del genere». Minniti aveva visto Cal venerdì scorso e gli era sembrato «normalissimo, tranquillo». Sui motivi del suo gesto ha detto che «la Procura non c’entra nulla. È stato ascoltato in un’inchiesta di tipo amministrativo non penale». Secondo l’avvocato, il motivo potrebbe essere «il crollo di un sogno. Era convinto di aver speso la vita a costruire ospedali e vedeva che questo si stava infrangendo». Per Minniti, però, nella vicenda del San Raffaele «non c’è stata malagestione», piuttosto una gestione con una «ottica non imprenditoriale». I debiti si sono «formati per investimenti fatti per costruire ospedali e portare la sanità dove c’era bisogno». D’altronde «il patrimonio del San Raffaele – ha concluso – vale tre volte i debiti che ha».
Il suicidio di Cal ricorda, non solo per la data e il luogo, il colpo di pistola con il quale, il 23 luglio del 1993, Raul Gardini pose fine alla sua esistenza e al suo sogno di “contadino globale” rompendo il silenzio di Palazzo Belgioioso, nel centro di Milano, e dando così un’espressione plastica al suicidio, morale e fisico, di un’intera classe dirigente. Allora le inchieste giudiziarie si abbattevano su Tangentopoli e incombevano le Mani Pulite, oggi c’è chi intende strumentalizzare a fini politici questo suicidio avvenuto nel grande e avanzatissimo istituto di ricerca preferito da Berlusconi (e prima di lui da Bettino Craxi).
Mario Cal, da oltre trent’anni amico e braccio destro del presidente del San Raffaele, don Luigi Verzè, era il vero e proprio regista delle finanze della fondazione Monte Tabor, che oggi rischia di fallire a causa del maxi-debito da quasi un miliardo di euro del gruppo ospedaliero. Sposato, senza figli, era veneto proprio come don Verzè, e chi lo conosceva bene racconta il legame fortissimo che univa i due, tanto da definirli «gemelli siamesi», inseparabili. E, secondo alcuni osservatori, ciò che avrebbe portato il vicepresidente del San Raffaele a togliersi la vita sarebbe stato proprio lo spettro del crack: «Potrebbe non aver retto il peso delle responsabilità che stavano emergendo», hanno commentato.
 La carriera lavorativa di Cal a Milano iniziò nel ciclismo, alla Bianchi Colnago, come manager sportivo. Successivamente gestì anche un impianto sportivo, l’Accademia del Tennis di Milano, insieme ad alcune altre piccole iniziative imprenditoriali. Fu in questo periodo che conobbe don Verzè e ne divenne il contraltare. Nel 1994 venne travolto dallo scandalo di Tangentopoli: trascorse un giorno e una notte di galera insieme all’allora direttore amministrativo del San Raffaele, Vincenzo Mariscotti, «ma poi di quella vicenda non si è più saputo niente», ha commentato chi lo conosceva. Negli ultimi dieci anni Cal aveva ottenuto la delega pressoché totale per la guida del San Raffaele dal punto di vista finanziario. Quando è iniziato il calvario al San Raffaele, con le manovre per avviare un piano di salvataggio, Cal sentiva addosso «una responsabilità che certamente aveva, ma che era anche condivisa. Questo ha pesato non poco» sul suo gesto estremo, «così come l’idea che l’opera che lui ha costruito insieme a don Verzè sarebbe stata portata avanti da altri». Una persona che lo conosceva bene ha detto che il suo suicidio «era forse l’ultimo modo per proteggere don Verzè, qualora dovesse succedere qualcosa» dal punto di vista legale e amministrativo.

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