Papa Francesco all’Ilva di Genova, un manifesto del “buon lavoro”

29 Mag 2017 20:46 - di Mario Bozzi Sentieri

È  un vero e proprio manifesto del buon lavoro e della buona impresa quello lanciato da Papa Francesco, durante al sua visita pastorale a Genova, di fronte ai lavoratori dell’Ilva. Un manifesto che ci sentiamo di condividere per il valore etico-sociale e che proviamo a proporre nella sua essenzialità per la sua forza “programmatica”. L’auspicio è che le parole del Papa non cadano nel dimenticatoio, diventando l’occasione per ulteriori approfondimenti.

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La dignità del lavoro

È importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro perché nega la dignità del lavoro che inizia proprio nel lavorare bene per dignità, per onore.

Il buon imprenditore

Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore deve essere prima di tutto un lavoratore! Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, del risolvere insieme i problemi, del creare qualcosa insieme.

Chi vende la sua gente vende la dignità propria

Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente! Chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando gente non è un buon imprenditore, è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani vende la dignità propria. Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore, sono due tipi diversi. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama mercenario, per contrapporlo al buon pastore. Vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto, usa azienda e lavoratori per fare profitto, non li ama. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per il suo profitto.

Contro l’economia senza volti

Quando l’economia è abitata da buoni imprenditori le imprese sono amiche della gente. Quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. È una economia senza volti, astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone, e quindi non si vedono le persone da licenziare e tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete diventa senza volto e quindi spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori. Ma paradossalmente qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro, e non chi investe e crede nel lavoro. Perché crea burocrazia e controlli sugli speculatori e chi non lo è rimane svantaggiato. Si sa che regolamenti e leggi pensate per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti e oggi ci sono tanti veri imprenditori onesti che amano i loro lavoratori e la loro impresa, e lavorano per portare avanti l’impresa. E questi sono i più svantaggiati per queste politiche che favoriscono gli speculatori.

Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro

La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto di più, lavorando diventiamo più persone, la nostra umanità fiorisce, la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro come partecipazione alla creazione che continua
grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che sperimentano lavorando. Come ci sono pochi dolori più grandi di quando il lavoro schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro. Con il lavoro gli uomini e le donne sono unti di dignità.

Edificare il patto sociale

Attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale, quando non si lavora, si lavora male o poco è la democrazia che entra in crisi, tutto il patto sociale entra in crisi. È anche questo il senso dell’articolo primo della Costituzione italiana: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Possiamo dire
che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o mal pagato, è anticostituzionale, secondo questo articolo! Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia perché il posto del lavoro lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite.

L’obiettivo sociale da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti

Bisogna guardare alle trasformazioni tecnologiche e non rassegnarsi all’ideologia che immagina un mondo dove forse metà o due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Deve essere chiaro che l’obiettivo sociale da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso, pensiamo alla rivoluzione industriale. Ci sarà una rivoluzione, ma dovrà essere lavoro, non pensione! Non pensionati, lavoro! Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia ma contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35-40 anni, con assegno dello Stato.

Gli eccessi della competizione

I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente e molti di questi valori della grande impresa e della grande finanza non sono in linea con la dimensione umana e pertanto con l’umanesimo cristiano. L’accento sulla competizione, oltre ad essere un errore antropologico, è anche un errore economico perché dimentica che l’impresa è cooperazione mutua. Quando si crea un sistema che mette in competizione i lavoratori tra loro, magari può ottenere nel breve periodo qualche vantaggio ma finisce col minare quel tessuto che è l’anima di ogni organizzazione e così quando arriva una crisi l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Questa cultura competitiva è un errore, è una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia.

Gli eccessi della meritocrazia

Un altro valore che in realtà è un disvalore, è la meritocrazia oggi tanto osannata, che affascina molto. Al di là della buona fede dei tanti che la invocano, la meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata. Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura, ma questa non è la logica del Vangelo e della vita. La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore del figliol prodigo che disprezza il fratello minore e pensa che debba restare un fallito. Il padre invece pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci.

La dignità del lavoro

Chi perde il lavoro e non riesce a trovarne un altro sente che perde la dignità. Come chi è costretto ad accettare lavori cattivi e sbagliati. Ci sono ancora lavori cattivi e sbagliati nel traffico illegale di armi, nella pornografia, nei giochi di azzardo e in tutte quelle imprese che non rispettano lavoratori e
ambiente, come chi è pagato molto perché il lavoro prenda tutta la vita, senza orari. Senza lavoro si può sopravvivere, ma per vivere occorre il lavoro e la scelta è tra il sopravvivere e il vivere. Un assegno statale, mensile, che ti faccia portare avanti la famiglia, non risolve il problema. Il problema va risolto col lavoro per tutti.

Il lavoro e la Festa

Un paradosso della nostra società è la presenza di una quota di persone che vorrebbero lavorare e non riescono, o altri che vorrebbero lavorare di meno, ma non ci riescono perché sono stati comprati dalle imprese. Il lavoro diventa fratello quando accanto ad esso c’è la festa, il tempo libero. Senza questo, diventa lavoro schiavistico, anche se superpagato. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati non è mai veramente domenica, perché manca il lavoro del lunedì. Per celebrare le feste è necessario poter celebrare il lavoro, vanno insieme, l’uno scandisce il tempo dell’altro. Il consumo è un idolo del nostro tempo, è il consumo il centro della nostra società e quindi il piacere. Oggi ci sono i nuovi templi aperti 24 ore, che promettono la salvezza, punti di puro consumo e di puro piacere. Il lavoro è fatica, e sudore, quando una società edonista vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore, non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro e continueremo a sognare il consumo del puro piacere».

Il lavoro e il consumo

Il lavoro è il centro di ogni patto sociale non un mezzo per potere consumare. Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle: libertà onore, dignità, diritti di tutti. Se svendiamo il lavoro al consumo, svenderemo presto anche queste parole sorelle.

Spiritualità del lavoro

Molte delle preghiere più belle dei nostri genitori e nonni, erano preghiere del lavoro recitate prima, dopo e durante il lavoro. Il lavoro è presente tutti i giorni nell’eucaristia i cui doni sono frutto della terra e del lavoro dell’uomo. I campi, il mare, le fabbriche, sono sempre stati altari dai quali si sono alzate preghiere belle e pure che Dio ha accolto e raccolto, recitate ma anche dette con le mani, il sudore, la fatica del lavoro di chi non sapeva pregare con la bocca. Dio ha accolto tutte queste e continua ad accoglierle anche oggi. Per questo vorrei terminare con una preghiera: il vieni Santo Spirito: “Manda a noi un raggio della luce, vieni padre dei poveri, dei lavoratori e delle lavoratrici”.

(A cura di Mario Bozzi Sentieri)

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