Immigrati, finita la pacchia. La Cassazione: devono uniformarsi ai nostri valori

15 Mag 2017 18:39 - di Paolo Lami

Gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale hanno «l’obbligo» di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso «di stabilirsi» ben sapendo che «sono diversi» dai loro e «non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante». Non è Giorgia Meloni a dirlo. E neanche Matteo Salvini. Ma la Cassazione che, condannando un indiano sikh che voleva circolare con un coltello ritenuto “sacro” secondo i precetti della sua religione, ha ristabilito alcuni principi ovvi e di buonsenso. Principi quotidianamente calpestati dalla massa di immigrati che si riversa sull’Italia. E da una sinistra che pretende di piegare tradizioni e norme italiane alle necessità e ai voleri degli immigrati.

«In una società multietnica, – spiega la Suprema Corte nel suo verdetto – la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine» «il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante».

Così, con questa sentenza, i supremi giudici hanno respinto il ricorso dell’indiano sikh condannato a duemila euro di ammenda dal Tribunale di Mantova, nel 2015, perchè il sei marzo del 2013 era stato sorpreso a Goito, in provincia di Mantova, dove c’è una grande comunità sikh, mentre usciva di casa armato di un coltello lungo quasi venti centimetri.

L’indiano aveva sostenuto che il coltello, il cosiddetto kirpan dei sikh, come il turbante «era un simbolo della religione» e il portarlo «costituiva adempimento del dovere religioso».
Per questo aveva chiesto alla Cassazione di non essere multato, e la sua richiesta era stata condivisa dalla Procura della Suprema Corte che, evidentemente, ritenendo tale comportamento giustificato dalla diversità culturale, aveva chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna.

Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, invece, «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare, preventivamente, la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».

Il verdetto aggiunge che «la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».

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