Per il fascismo il calcio era lo sport più bello perché insegnava a fare squadra

4 Feb 2017 17:44 - di Redattore 54

Se si pensa al fascismo e allo sport vengono in mente i salti nel cerchio di fuoco esaltati da Achille Starace. Una visione stereotipata e macchettistica smentita e superata dai più recenti studi sull’argomento. Vale la pena, a questo proposito, di leggere le documentate pagine del libro di Enrico Landoni, Gli atleti del Duce (Mimesis, pp. 228, euro 22) che a proposito della politica sportiva del fascismo sottolinea la modernità di una visione che rompeva con lo schema classico – internazionalista e apolitico – di De Coubertin.

Lo Stato organico e Marinetti 

Una visione fondata sulla riscoperta “della fisicità dei singoli individui” all’interno della concezione organicistica dello Stato nuovo. A questa nuova mentalità diede un forte contributo anche “l’antropomorfizzazione marinettiana della nuova Patria post-bellica al cui servizio si sarebbero dovuti mettere tutti i cittadini, forgiati nello spirito e appunto nel corpo”.

Il mito dell’arditismo 

Né va trascurato il mito dell’arditismo, col motto “A chi l’ignoto? A noi”, che si richiama al fascino dell’incerto. In questo senso lo sport assume anche una valenza catartica dopo la “devastante malattia della guerra”. E proprio agli Arditi Mussolini rivolgeva appelli all’interno della cornice ideologica che puntava al risveglio del giovanilismo: “Voi non siete la teppa, ma la più bella e la più ardita aristocrazia delle trincee”. 

Il socialismo ostile allo sport 

Il fascismo incoraggiò una svolta nella concezione dell’educazione sportiva dell’individuo, contrastando la cultura intellettualistica del Psi che in Parlamento si opponeva alla proposta di legge di De Capitani che puntava all’incremento dell’educazione fisica della gioventù. Il socialista Fabrizio Maffi, ad esempio, tuonava contro l’istituzione dei boy scout “così artificiosa e così aristocratica” mentre compito del socialismo era “compiere una funzione di protettorato sulle classi povere”. 

Campi e stadi in tutta la nazione

Il fascismo pensava invece che proprio le classi povere dovessero beneficiare di un ambizioso programma di costruzione di campi e stadi patrocinata da Augusto Turati. “Non deve stupire – scrive Landoni – che già alla fine del 1928 i campi realizzati risultassero 441, di cui 339 al Nord, 63 al centro e 39 al Sud”. Complessivamente, già prima del 1930, il fascismo aveva messo a disposizione degli italiani 3280 impianti, con un ragguardevole sforzo economico e progettuale. 

L’Accademia femminile di Orvieto

Anche nel campo di quello che nei dibattiti dell’epoca veniva chiamato “atletismo femminile” il regime operò in modo incisivo e all’avanguardia. Le donne, che prima uscivano di casa solo per andare in chiesa, erano anche loro chiamate a far parte del nuovo programma di pedagogia sportiva promosso dal fascismo. Ne fa fede l’istituzione, nel 1932, dell’Accademia femminile di educazione fisica a Orvieto

Apologia del calcio

Si deve infine a Starace, al di là delle interpretazioni macchiettistiche richiamate all’inizio, l’azione sinergica combinata di cinema e sport con la promozione di documentari che dovevano servire all’insegnamento metodico delle varie discipline sportive. Tra le quali per il fascismo il calcio, grazie alla sua enorme popolarità e ai Mondiali che si tennero proprio in Italia nel 1934, “rappresentava una sintesi mirabile degli obiettivi fondamentali della nazione“. Il motivo lo spiegava Leone Boccali nell’editoriale d’esordio del periodico Il Calcio illustrato: “Il football vive, fondamentalemnte, di collaborazione. Gli individualismi vi sono richiesti, così come nell’ambito della società occorrono i capi e i migliori, ma non è nemmeno possibile fare a meno dei minori”. 

 

 

 

 

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