Cosa farà Donald Trump, il leader dei “dimenticati” dell’America profonda

14 Nov 2016 13:51 - di Marco Valle

L’America ha votato e Trump ha vinto. Bene. La Storia scorre veloce, scardinando vecchie certezze e convinzioni acquisite. Il Novecento è finito. Le antiche categorie — destra–sinistra, borghesi-proletari, progressisti-conservatori — sono ormai un ricordo del passato.

Trump e l’America profonda

Lo spregiudicato miliardario parruccato ha compreso l’America profonda, l’America reale dando voce alle sue ansie, alle paure, alle residue ambizioni. Trump ha interpretato la terribile voglia di ribellione e rivalsa verso i politicanti di Washington, gli speculatori di Wall street, i signori tech della Silicon Valley, le star di Hollywood, i giornalisti pieni di spocchia ma senza lettori. L’anchilosata Ciccone che promette fellatio a tutti e Tim Cook che tutti incula. I privilegiati.

Hillary Clinton, la donnna più antipatica del globo terracqueo, rappresentava pienamente questo piccolo mondo vanesio, fatuo, virtuale. Un circolo potente ma autoreferenziale ed orbo. Nella sua sublime arroganza, la signora ha preferito ignorare analisti come Cristopher Lasch o Charles Murray (progressisti ma non stupidi) che anticipavano la rivincita del popolo minuto: una collera che saliva dalle fattorie impoverite, dalle officine abbandonate, dalle fabbriche chiuse, dalle guerre inutili. Farmers and blue collars. Veterani, impiegati e piccoli e medi imprenditori. The forgotten class. Bianchi di diverse provenienze, ma anche ispanici, neri, immigrati integrati d’ogni fede (secondo gli studi con una prevalenza cattolica) e colore. L’America povera e patriottica descritta splendidamente da Cimino (e dimenticata dall’immemore De Niro…) ne Il Cacciatore. Per nonna Clinton erano solo un pugno di “miserabili”, gente non degna d’attenzione e non meritevole nemmeno del diritto di voto.

Dall’America è arrivata la botta

Alla fine la botta è arrivata. Doveva arrivare. Otto anni di Bush e otto di Obama hanno portato il paese al collasso interno. L’economia reale — non quella finanziaria, appannaggio degli happy fews — boccheggia, le aziende manifatturiere delocalizzano a causa delle tasse, le infrastrutture sono vecchie se non obsolete, l’ordine pubblico è un ricordo lontano. Poi i disastri internazionali: dall’Afghanistan alla Libia, dall’Iraq all’Ucraina, dalla Georgia alla Siria e alla Turchia un susseguirsi di interventi folli, vittorie perdute, pantani, pasticci e gaffes. Il declino americano.

Alla fine Donald il puttaniere, Donald il nazionalista, Donald l’impresentabile ha presentato il conto e ha vinto, rottamando i fighetti democratici e le schifiltose dinastie repubblicane. Il popolo, quello vero, ha votato lui e non il partito; non a caso, il GOP ha perso due seggi al Senato e sei al Congresso. Trump lo sa bene: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli umili, ai “dimenticati”, alla working class (a proposito, qualcuno in Italia avverta il povero Stefano Parisi che blatera in questi giorni di un “nuovo” centrodestra anti Trump e anti Le Pen…).

E ancora. Il neopresidente d’America dalla buffa chioma non è un “incidente crociano” della Storia, una sventura astrale, un commensale imprevisto, un barbaro fastidioso ma provvisorio. Mister president è parte piena della narrazione statunitense. Nella vicenda trumpiana ritroviamo Andrew Jackson, il candidato “populista” e “anti sistema” eletto a furor di popolo nel lontano 1828. Anche lui rappresentava le classi povere e operaie dell’Ovest, ostili ai latifondisti del Sud e ai magnati di New York. Poi vi è “Teddy” Roosevelt, il primo presidente che si occupò di diritti sociali e politiche ambientali, il nemico giurato di Rockfelller e Morgan, i “baroni ladri” della finanza e del petrolio. Odiato, guarda caso, dai suoi colleghi repubblicani “Teddy” fu costretto a fondare un proprio partito — il Bull Moose Party — e solo la morte nel 1919 impedì una sua rielezione. Il marito di Melissa — una bellezza slovena alla Casa Bianca… — ricorda Huey Long, lo sfortunato governatore “nazional popolare” della Luisiana (a cui abbiamo dedicato ampio spazio su Destra.it) accoppato nel 1935 dai sicari dell’oligarchia poco prima di candidarsi alla presidenza. Il suo slogan “ogni uomo è re” è risuonato più volte nelle conventions trumpiane. Infine c’è Barry Goldwater, un altro “populista libertario” abbandonato, sempre dai soliti repubblicani, nella sua corsa alla presidenza nel 1964.

Donald l’eccessivo, Donald il matto è l’espressione ultima (contradditoria, pasticciata ma efficace) di quella filosofia dell’ottimismo e dell’intrapresa teorizzata alla fine dell’Ottocento da William James, il padre del pragmatismo americano. Non una teoria del progresso necessario, ma un inno alla volontà e all’impegno dei singoli uomini. È l’American dream, il sogno tradito dalle èlite liberal egoiste ed ipocrite, ma ancora un richiamo forte per la maggioranza degli elettori. Lo ha ben capito David Goldman, uno dei pochi intellettuali “trumpiani” dichiarati. Al Foglio ha raccontato: «C’è qualcosa di glorioso nella notte delle elezioni. Qualunque cosa dica il popolo, si trasforma in qualcosa di solenne quando si tratta di scegliere i leader. L’elezione di Trump mostra che gli americani sono ancora gli americani: si assumono rischi, sperimentano, pensano, innovano, disposti ad abbracciare l’ignoto e a rifiutare lo stantio e il vecchio. Più di ogni altra cosa l’elezione dimostra che i tratti culturali più salienti dell’America rimangono intatti. Lincoln aveva ragione. Non si può ingannare il popolo tutto il tempo».

Cosa succederà? Vedremo. Attendiamo di vedere i nomi della squadra e capire gli equilibri interni alla galassia repubblicana, non aspettiamoci rivoluzioni epocali ma bensì una discontinuità (apparente o reale, chissà?) con Bush e Obama. Di certo Trump cercherà ridurre le tasse in modo significativo e, come nel New Deal, investirà nelle grandi opere infrastrutturali. In politica estera è logico attendere un rapporto più stretto con la Gran Bretagna post Brexit (la signora May non vede l’ora d’incontrarlo) e un’apertura alla Russia putiniana. Se poi verranno confermate le voci di un ritorno ai vertici di David Petraeus (un altro puttaniere, ma anche uno stratega geniale) e di Rudolph Giuliani novità sostanziali non mancheranno.

Restiamo in attesa,  con curiosità, ma senza innalzare bandiere stellate o cantare Good bless America. La nostra è e rimane un’altra storia. Donald o non Donald.

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