Punito perché scomodo. Ma Capitano Ultimo non getta la spugna

31 Ago 2015 14:11 - di Romana Fabiani

Non è tipo da gettare la spugna. E, infatti, malgrado la “punizione” dei superiori che lo hanno demansionato (per aver disturbato i potenti?), continua a combattere. Lui è capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, il colonnello dei carabinieri che ha arrestato dopo decenni di caccia il boss mafioso Totò Riina e che ha all’attivo un curriculum contrassegnato da ingagini eccellenti e contrasti alla criminalità senza guardare in faccia nessuno. Un curriculum contrassegnato da scontri con le alte sfere dell’Arma, fin dal 2000 quando venne di fatto trasferito al Noe dal Ros, dove aveva creato il Crimor, l’Unità militare combattente. Al Capitano Ultimo, costretto a non mostrare mai il volto, si devono l’apertura del fascicolo sulle Coop, l’arresto di Bisignani per per traffico di informazioni segrete e appalti per la P4, le indagini sul “tesoro” di Ciancimino junior, figlio dell’ex sindaco di Palermo, quelle sui conti di Belsito, le imbarazzanti intercettazioni di Renzi e del comandante della Guardia di Finanza, generale Adinolfi. Indagini serrate e testarde in tutte le direzioni, colpendo mafia, criminalità, corruzione politica e malaffare a tutte le latitudini. Centrato un bersaglio si procede con quello successivo («Quando uno finisce la caccia e trova la preda si sente semplicemente vuoto perché deve pensare alla caccia successiva»).

Ultimo, una vita dalla parte dei deboli

«Sono l’Ultimo degli scomodi, ma accetto gli ordini superiori» dice intervistato dal Fatto quotidiano alla vigilia del “declassamento” deciso dai vertici dell’Arma: dal 1 settembre il capitano Ultimo sarà costretto a lasciare il timone del Noe (il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, frazionato nell’ambito della riorganizzazione complessiva dei reparti ) ma non smetterà di essere in prima linea. Perché, come dice Rita dalla Chiesa, «Ultimo è un simbolo, è il carabiniere che sta dalla parte di chi soffre, dei più deboli». Controcorrente, irrequieto, ma rispettoso degli ordini (come quando gli fu tolta la scorta), è lui stesso a raccontarsi, a partire dal nome di battaglia. «Ho scelto Ultimo perché vedevo che tutti volevano essere primi, volevano essere più bravi, più belli, volevano emergere, ricevere prestigio. Mi facevano schifo perché – spiega il capitano – credo che il lavoro del carabiniere sia un donare e non un avere». Nessuna polemica per la rimozione dalle funzioni investigative, «rispetto le decisioni, credo che il mio lavoro possa parlare per me».

La mafia si combatte per strada

Dalla Casa Famiglia Capitano Ultimo, che ha fondato nel 2009 e dove abita, De Caprio spiega che il suo non è un lavoro, «io combatto», e che la sua lotta alla mafia si fa  sulla strada, «senza volere niente in cambio». E per questo ringrazia i suoi “maestri”, il generale Dalla Chiesa, il giudice Falcone, il generale Mori. «Ho imparato il mio lavoro nelle stazioni dei carabinieri, le piccole caserme sono una grandissima scuola», dice. E non è cambiato. «Ho salutato mia mamma, mio padre e mia sorella quando avevo sedici anni, e l’ho sempre portati nel cuore, li ho sempre sentiti ogni giorno accanto a me, anche ora che mio padre è morto». L’amore che abbiamo per il nostro popolo è così grande che ti fa dimenticare tutto», aggiunge raccontando il suo impegno nella casa Famiglia Ultimo, una struttura pubblica convenzionata dal Comune di Roma, che si occupa di disabili e minori abbandonati. Anche questa una missione. Tante iniziative: dalla raccolta fondi per i disabili all’apertura di un maneggio per l’ippoterapia, all’allevamento dei falchi. «Avevamo anche le aquile, amo la loro purezza e la loro libertà».

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