Il “renzismo” è la nuova politica partitocratica allo stato gassoso. Temiamo l’asfissia

6 Mar 2014 12:10 - di Gennaro Malgieri

C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nel “renzismo”. E’ il ritorno in grande stile, mascherato da “giovanilismo” (ecco il nuovo) dei vizi partitocratici che per una breve stagione avevamo ritenuto avvizziti. Le pratiche di potere, all’insegna dell’inciucismo più vieto e volgare, cui si è dato il giovin signore di Pontassieve pur di durare nella certezza che per farlo deve “compromettersi” politicamente con questo e con quello – le solite molteplici parti in commedia della quali la vicenda della legge elettorale è esemplificativa di un costume scadente e scaduto – mentre davanti alla gente si mostra affabulatore abile per quanto non convincente. E’ arrivato a palazzo Chigi senza passare per una consultazione elettorale, ma solo ottenendo un mandato partitico (da 136 signori, per la precisione); ha spodestato il legittimo inquilino (del suo partito oltretutto, rinnovando fasti democristiani che venivano celebrati peraltro con una eleganza ammirevole) senza sentirsi in obbligo di una sia pur timida spiegazione davanti al Parlamento; non ha mosso un dito per evitare le dimissioni di un sottosegretario non indagato, ma si tiene ben stretti i quattro del Pd regolarmente indagati con la scusa che non possono essere gli avvisi di garanzia a determinare la decimazione del governo: Gentile sì (neppure raggiunto da una telefonata di un magistrato), gli altri no, difesi a spada tratta dalla graziosa Maria Elena Boschi davanti ai deputati neppure tanto sbigottiti.

La linea di condotta di Renzi è ondivaga e contraddittoria. Immagina di arrivare lontano comportandosi in questo modo e non dice una parola di fronte all’ennesimo declassamento da parte dell’Unione europea che, da quel che sappiamo, non sembra avere molta fiducia nel ragazzo toscano avvezzo (encomiabilmente) a visitare le scuole, ma poco incline a farsi strada nei corridoi di Bruxelles dove è ricominciato il tiro al piccione contro l’Italia. Ma che ci volete fare: lui è un figlio del popolo, mica dell’alta finanza. Ed è così che dai primi atti, dei quali i cittadini hanno capito ben poco, si vede la stoffa di un leader annunciato, ma non sbocciato.

Fino a quando delle bizzarre regole, soprattutto dalla sua parte, consentiranno a chicchessia di rottamare a furia di primarie e di demagogia, l’Italia non avrà più una sinistra, come ha scritto magnificamente nel suo pamphlet che non ha avuto il tempo di vedere in libreria il compianto carissimo amico Gianni Borgna. In Senza sinistra (Castelvecchi editore), formula un atto d’accusa in piena regola nei con fronti degli eredi di quello che fu il suo partito, il Pci: hanno rinunciato alla politica, alle idee, alla cultura che avrebbe dovuto ispirarli per un facile consenso che avrà l’effetto di un boomerang. E se lo chiamassimo Renzi quel boomerang prevedibilissimo, ma invisibile a chi ha tenuto gli occhi chiusi?

Purtroppo per noi lo statista toscano non è soltanto il capo di un partito disastrato, ma il primo ministro di un Paese che fatica ad uscire dall’angolo in cui si trova. E le premesse renziane non fanno ben sperare. Olli Rehn avrà molte lettere da indirizzare a Palazzo Chigi nei prossimi mesi, mentre noi ci balocchiamo con leggi elettorali, Senati da abolire o riformare, Job act che nessuno ha capito perché dobbiamo chiamare così un “piano per il lavoro”. Forse per non far capire. Appunto.

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