Poca solidarietà a Panebianco dopo la contestazione: l’Italia rimane il Paese dei “chierici” pavidi

15 Gen 2014 20:12 - di Aldo Di Lello

L’Italia è un Paese che continua ad avere un concetto piuttosto vago della libertà d’espressione. O, per la precisione, un concetto a senso unico. Basta infatti proclamarsi paladini delle categorie-simbolo del politically correct  (gay e immigrati) per godere della più ampia facoltà di propaganda e di manifestazione, fino alla più larga tolleranza per l’invettiva e l’insulto. Se però la stessa libertà è utilizzata per esprimere opinioni, non diciamo contrarie, ma in qualche modo critiche riguardo ai dogmi della neoideologia dei “diritti” , allora (stranamente) accade il fenomeno opposto: se va bene, si è semplicemente ignorati; se va male, si riceve l’accusa infamante di razzismo, con tutto quel che ne consegue in termini di lapidazione mediatica. C’è anche chi, per la verità, gioca un po’ troppo disinvoltamente con questi nervi scoperti e assume atteggiamenti deliberatamente provocatori, al solo scopo di farsi pubblicità, fomentando le opposte tifoserie dell’opinione pubblica. Così fu ad esempio quando Calderoli fece, a suo tempo, quella battutaccia sulla Kyenge e sull’orango. Fu un’uscita stupida e disastrogena, che ottenne solo l’effetto di abbassare ulteriormente la qualità (già non eccelsa) del dibattito pubblico sull’immigrazione e di fornire l’ennesimo alibi ai fanatici del politically correct.

Ma il problema più rilevante non è quello degli incendiari (in un senso o nell’altro) che popolano la scena mediatica, quanto piuttosto quello di una sorta di timidezza, se non addirittura pavidità, che condiziona i comportamenti di vasti settori dell’intellighenzia, della politica, dell’informazione. È come se i tanti “liberali” che impartiscono quotidiane lezioni di ragionevolezza, buon senso, pragmatismo, a-ideologismo,  avessero poi timore di schierarsi, di mobilitarsi, di scendere in campo ogni volta che si tratta di prendere una posizione dura e “politica“ contro gli eccessi del politically correct. È quello che abbiamo amaramente constatato dopo il caso del professor Panebianco e della violenta contestazione da lui subita a seguito dell’editoriale di lunedì sul Corsera, gabellato come  “razzista” dai facinorosi della piazza e dei media. Della vicenda abbiamo già parlato. Ma vale la pena tornarci alla luce della scarsa solidarietà ricevuta da Panebianco sia dal modo accademico sia da quello politico sia da quello mediatico. Gli unici a esprimere vicinanza al politologo e a condannare l’atto di intolleranza  sono stati Pierferdinando Casini, Fratelli d’Italia, la Lega, i parlamentari bolognesi del Pd, il sottosegretario all’Istruzione Gian Luca Galletti e, solo dopo un giorno, l’Accademia delle Scienze di Bologna. Per il resto, un assordante silenzio. Scarsa eco sui giornali e sui siti on line. È un caso davvero clamoroso di menefreghismo se non addirittura di acquiescenza. L’aggressione a uno studioso che interviene sui giornali non è cosa da prendere sottogamba, perché coinvolge direttamente la libertà di esprimere il proprio pensiero, senza timore che opinioni sgradite o contrarie alle vulgata buonista imperante possano suscitare reazioni di fanatismo. È solo nei Paesi attraversati dall’integralismo islamico che gli intellettuali devono stare attenti a quello che dicono o a quello che scrivono, al fine di non scatenare violente manifestazioni di piazza. Di tutto ha bisogno l’Italia, meno che di derive attivate dai pasdaran del politicamente corretto.

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