La lezione di Adriano Romualdi a quarant’anni dalla tragica scomparsa

12 Ago 2013 14:39 - di Gennaro Malgieri

A quarant’anni dalla improvvisa e prematura scomparsa, Adriano Romualdi (1940-1973) è ancora vivo nella memoria di chi era suo coetaneo o, come si disse all’epoca, suo “fratello minore”. Per quanto possa risultare strano, la visione complessiva della cultura politica della destra elaborata “prodigiosamente” in considerazione della sua giovane età da Romualdi, è ancora fonte di suggestioni, stimoli e spunti di riflessione. Per quanto i tempi si siano fatti lividi, quel che rimane di una esperienza di scavo nelle ragioni profonde di una parte politica come la destra italiana è ancora racchiuso in tante intuizioni dello studioso che se ne andò come mai avrebbe immaginato: tra le ferraglie della sua macchina fuori strada alla vigilia di un torrido ferragosto, mentre indifferenti per tutta una notte gli passavano accanto automobilisti distratti che non si accorsero di un uomo che stava morendo in quella terribile notte del 12 agosto.

Fu una perdita enorme ed anche chi intellettualmente lo avversava ne riconobbe il grande valore che Rodolfo Sideri, studioso attento ed appassionato, sottolinea nel suo Adriano Romualdi. L’uomo, l’opera e il suo tempo (Edizioni Settimo Sigillo), nel quale passa in rassegna la vasta produzione romualdiana situandola nel dibattito politico-culturale che si sviluppò a destra tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta. Dibattito del quale i saggi ripubblicati, sempre dal Settimo Sigillo, Una cultura per l’Europa, forniscono non solo un’idea del clima di aspettative che stavano maturando, ma anche le indicazioni  ad una destra che stava per uscire dallo stato di minorità e doveva attrezzarsi a “cavalcare la tigre” dell’antagonismo politico-culturale con la consapevolezza di chi sa che la buona battaglia è soltanto quella che si combatte con “la forza delle idee senza parole”, come ammoniva Oswald Spengler.

A quell’epoca, quando Adriano scriveva e “consigliava” percorsi di interventismo intellettuale dalle pagine della rivista “L’Italiano”, diretta da suo padre Pino e sulla quale tanti di noi ci andavano formando come giornalisti, scrittori e politici, per quanto giovanissimo era già “qualcuno” e non soltanto perché ricercatore universitario a Roma, per volere di Renzo De Felice e Rosario Romeo che quasi clandestinamente, visto il nome che portava, lo laurearono in Storia contemporanea, o per il fatto di essere poi diventato assistente nell’Ateneo di Palermo dell’indimenticabile altrettanto giovane maestro Pippo Tricoli, ma per l’innata attitudine a pensare la politica e la cultura insieme, non ravvisando tra di esse nessuna frattura come purtroppo a destra, e non soltanto, si era portati a ritenere.

Nel panorama di allora della cosiddetta “nuova cultura” – coincidente, grosso modo, con quella che, dopo le affermazioni elettorali del Movimento Sociale Italiano, veniva definita in maniera approssimativa l’area della cultura di destra – emersa, sviluppatasi ed in una certa misura affermatasi (soprattutto presso alcuni ambienti intellettuali, anche di sinistra), Romualdi occupava, per quanto ancora apparentemente “acerbo”, un posto preminente come testimoniano i suoi scritti, i suoi interventi giornalistici, la sua prodigiosa attività di pensatore e di storico teso a dimostrare, come avrebbe scritto Giorgio Galli che “la cultura di destra  e le sue proposte politiche non sono un’escrescenza anomala sul corpo socio-culturale dell’Occidente”. Prescindere, dunque, dalla sua riflessione storico-politica, per quanto il tempo trascorso abbia modificato sostanzialmente i connotati di una destra destra che di fatto è talmente evanescente dal punto di vista politico da essere perfino irrilevante culturalmente, è senz’altro pregiudizievole ai fini di un’adeguata comprensione di una destra “diffusa”, essa sì reale e viva più di quanto si sia portati a credere,  arcipelago quanto mai frastagliato nel quale compaiono paesaggi “radicali”, “tradizionali” e “innovativi” i cui confini non sempre sono netti e definibili proprio in ragione del medesimo terreno di coltura sul quale, nel tempo, e non sempre per ragioni puramente ideologiche, sono avvenute diversificazioni e differenziazioni tattico/strategiche. Insomma, un pensiero di destra – declinato in chiave conservatrice soprattutto, almeno nell’accezione di Arthur Moeller van den Bruck (“Essere conservatori non significa dipendere da ciò che è stato ieri, ma vivere di ciò che è eterno”) – esiste ancora per quanto non codificato in neessuna scuola, nè tantomeno, purtroppo, in nessuna formazione politica. Da questo punto di vista le speranze di Romualdi, ma anche di tutto un mondo a lui coevo e perfino successivo, si sono rivelate assolutamente inconsistenti per ragioni che sarebbe improprio indagare qui. Basta soltanto dire che chi avrebbe dovuto incarnare la destra, soprattutto una volta al potere, ha dimostrato di non aver assimilato nulla di quella cultura e di aver  gettato alle ortiche la storia dalla quale discendeva per calcoli sui quali si discuterà a lungo quando la riflessione  sul ventennio 1992-2012 sarà possibile, al di là delle passioni che ne impediscono un sereno approccio.

L’opera di Adriano Romualdi, comunque la si voglia considerare e  sia  pur valutata in parte legata al suo tempo e suscettibile essa stessa di riconsiderazione alla luce di esperienze ed approfondimenti successivi che egli stesso avrebbe considerato “naturali”,  è certamente uno dei motivi conduttori di maggiore interesse della destra culturale a prescindere dalle passioni di parte e dalle valutazioni della stessa ascrivibili alle sensibilità diverse che ciascuno legittimamente può nutrire. Resta tuttavia integro, come osserva Sideri nel saggio citato, “la necessità di raccogliere l’invito romualdiano ad elaborare una massa critica di produzione culturale che renda egemone, nelle coscienze prima che nelle urne, la cultura politica di destra”.

Già, il problema dell’egemonia. Romualdi ne era consapevole forse più di ogni altro anche quando venne di moda parlare di “cultura di destra”, mettendola magari nelle mani di chi veniva da sinistra ed in fondo legato al materialismo storico era rimasto. Ma questa è un’altra storia che coincide con la vitalità, negata dagli avversari ed da decenni ignorata dagli storici, di una destra che voleva riformarsi senza abdicare ai principi. A quella destra in particolare si rivolgeva Romualdi non sempre compreso, anzi il più delle volte avversato tanto dagli apparati partitici missini che da quelli collaterali.

Nonostante tutto – ed è ciò che più conta –   pur nella poliedricità degli interessi coltivati, in Romualdi è comunque possibile individuare un pensiero unitario teso all’elaborazione di una “nuova cultura” quale supporto teorico di una “grande politica” da praticare nel tempo della fine delle illusioni edonistiche (quanto mai attuale la sua diagnosi della società unidimensionale e determinista) e scandito dal rifiuto della politica, motivato dal disgusto per l’astrattismo partitico, dall’indifferenza per una logica di potere estranea agli interessi reali, dalla mancanza di qualsiasi ideale di rinascita europea da parte delle classi dirigenti non solo italiane. Insomma, il tempo della Grande Crisi nel quale siamo totalmente immersi in cui insensate e fittizie sollecitazioni “estetiche” acuiscono la corsa verso i nuovi bisogni sempre più difficili da soddisfare, alimentando le sacche di depressione morale che costituiscono la riserva migliore all’ampliamento degli scenari della rinuncia, apocalitticamente colorati, sui quali si staglia l’azione corrosiva dei giganti egemoni della nostra epoca: i mercati finanziari che hanno sostituito in pratica i giganti del tempo in cui si esercitava la critica romualdiana contro il mondo moderno, vale a dire l’America e l’Unione Sovietica. La vittoria di questi soggetti ieri e della finanziarizzazione dell’economia oggi dipende solo dalla rassegnazione europea. E quanti sono oggi i non rassegnati? E per loro quale orizzonte di impegno civile è ipotizzabile? Può essere la “scelta” europea, la riappropriazione della politica, il tentativo di creare ed imporre nuove egemonie l’impegno di di chi non è venuto meno all’aderenza ai valori “oggettivi” nel tempo della trasmutazione del senso e del bene comune? L’opera complessiva di Romualdi è la risposta affermativa a questo interrogativo “cruciale”. Risposta che a fronte di quanto sta accadendo nel mondo, ma soprattutto in Europa, ci sembra la più pertinente e la più attuale.

La riflessione storica e politica di Adriano Romualdi è certamente un punto di riferimento per chi cerca delle risposte radicali nel contemporaneo movimento delle idee, caratterizzato da una malsana indulgenza verso un certo rifiuto nichilistico a cui Romualdi ha inteso reagire respingendo la logica compromissoria dell’egualitarismo e della massificazione, la mercificazione dell’anima e della mente, lo scempio della “nostra” Europa, la profanazione della Tradizione, la dissacrazione della memoria storica dei “vinti”, la negazione delle più intime ragioni della vita dell’uomo, nel più complessivo intento di adeguare i “valori di sempre” alla mutevole realtà.

È questo il patrimonio ideale che un’intera generazione ha fatto suo; quella generazione nata agli inizi degli anni Cinquanta che ha considerato Adriano Romualdi un “fratello maggiore”, orfana di padri nobili; e per tale generazione, il 12 agosto 1973 non è soltanto il giorno in cui è morto un amato giovane studioso, bensì la data dell’inizio di un cammino “fuor di tutela” che avrebbe visto le idee di Romualdi percorrere itinerari diversissimi con le gambe di giovani intellettuali che comunque la sua “lezione” non hanno dimenticato.

Il problema delle radici, delle origini, connesso alla ricerca di un’identità unitaria degli europei è stato il grande assillo e la grande passione di Romualdi. Pensando per grandi spazi e forte di una concezione geopolitica che superava gli angusti limiti del nazionalismo, Romualdi riconnetteva alla questione dell’unità europea un’importanza primaria. Si trattava, a suo giudizio, di dare un senso compiuto all’idea dell’Europa riscoprendo le ragioni e gli elementi remoti del suo essere e proiettandoli nel presente e nell’avvenire in modo tale da dare il senso di una comunità compiuta sotto il profilo culturale, storico e politico.

Compito non facile dal momento che Romualdi stesso non si nascondeva che per taluni la tradizione europea si identifica con il razionalismo, mentre per altri con il cristianesimo e per altri ancora con la classicità. Tutti aspetti, comunque li si voglia considerare, limitati e particolari. Molto più indietro si deve risalire, secondo Romualdi, per ricavare dall’intero complesso della storia spirituale europea il senso di una tradizione. Romualdi indica nel mondo indoeuropeo il principio unificatore dei popoli del Vecchio Continente. Un mondo caratterizzato da un ordine spirituale che si fonda sull’ineguaglianza e sugli elementi aggregativi naturali: la famiglia, la comunità di appartenenza, lo Stato, la religione, il diritto. “A quest’ordine indoeuropeo – osserva Romualdi – collaborano sia lo spirito dell’uomo, sia le più alte potenze. L’intelligenza umana non è contraddetta, ma completata, dalla presenza di una intelligenza della natura e dell’universo. Di qui l’imperativo che spinge questa razionalità umana a farsi azione, unificando nella sua lotta i motivi dell’ordine umano e di quello divino”.

Siamo in presenza, com’è facile notare, di una concezione sacrale dell’esistenza. Concezione che scandiva, nei cosiddetti “tempi tradizionali”, il corso dell’anno, le celebrazioni, le regole morali e spirituali, perfino la coltivazione dei campi e la cura delle case: un ordine cosmico nel quale l’uomo viveva come membro di una  aggregazione consapevole di avere un differenziato destino dalle altre comunità.

Anche la considerazione che Romualdi aveva dei movimenti nazionali europei sorti e sviluppatisi tra le due guerre rimanda allo schema di valori primari tipici della civiltà europea ed in questo senso egli ha affrontato la critica alle ideologie egualitarie ed illuministiche. Nel saggio Il fascismo come fenomeno europeo scrive: “Il fascismo non fu solo una dottrina espansionistica. In esso s’incarnò la nostalgia delle origini in un momento in cui si manifestavano delle tendenze livellatrici di ogni struttura organica e spirituale. Cioè a dire il fascismo fu la reazione di una civiltà moderna che rischiava di perire proprio per eccesso di modernità. È contro la indisciplina liberale, il materialismo marxista, l’egualitarismo livellatore che si leva il grido reclamante nuovi legami, nuova spiritualità, una nuova fedeltà al sangue. Questo stadio ‘romantico’ di una cultura è il momento in cui si sviluppa il fascismo”.

La fine del fascismo, comunque, non ha mai costituito un valido motivo per Romualdi per piegarlo all’accettazione della storiografia della disfatta, né per fargli considerare il fascismo una “parentesi” nella storia europea.

Lo studioso ha piuttosto contemplato la decadenza con lo spirito militante della rinascita, con l’attitudine di chi sa che oltre il buio del presente vi sono orizzonti che vanno scorti, costi quel che costi. L’orizzonte della rinascita europea per Romualdi non poteva che essere la ripresa di un mito, di una “grande politica” quale espressione di una volontà di potenza.

Ecco perché lo schema di aurore e tramonti, caratterizzante la storia europea, e del quale Romualdi aveva piena coscienza, non ha mai determinato in lui l’accettazione del nichilismo come condizione ineluttabile dell’uomo europeo. Nietzscheanamente fedele alla visione ciclica della storia, Romualdi ha sempre creduto negli eventi storici rigeneratori della coscienza e della vita dei popoli. La stessa considerazione dell’avvento dei movimenti fascisti è il sintomo più evidente dell’applicazione di un “metodo nietzscheano” all’analisi dei grandi avvenimenti. E così pure, derivata da Nietzsche, in Romualdi è la concezione di una “grande politica” a cui frequentemente, agli inzi degli anni Settanta, richiamò la destra italiana. Dagli scritti di Romualdi emerge in maniera evidente che la sua milizia culturale e civile si è interamente proiettata nel dare pratica attuazione ad un progetto ideale ed esistenziale: la formulazione non di una teoria, di una dottrina, di una ideologia, bensì di una visione del mondo e della vita. Quella visione che oggi terribilmente ci manca.

 

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