Se i professionisti dell’indignazione armano la mano

29 Apr 2013 10:53 - di Mario Landolfi

Voleva uccidere i politici Luigi Preiti. Meglio, voleva punirli perché li riteneva responsabili della sua condizione di cinquantenne senza più lavoro e senza più famiglia e quindi senza più ancoraggio né prospettiva. Una storia, la sua, purtroppo di ordinaria disperazione nell’Italia di oggi, tutt’altro che sconosciuta quindi e men che meno inedita. Inedito, semmai, è il significato del gesto dell’attentatore.

Nella nostra memoria collettiva è impresso uno sconfortante e vastissimo repertorio di gesti estremi, dal regicidio al terrorismo. Ma ognuno di essi ha comunque risposto ad impulsi e ad estremizzazioni psico-politiche finalizzate ad abbattere i simboli del potere o ad eliminare fisicamente il nemico, quello dell’opposta sponda. La sparatoria all’esterno di Palazzo Chigi non sembra rispondere a nessuno dei due obiettivi. Preiti ha sparato contro due carabinieri. Ma non lo ha fatto da anarchico o da terrorista inquadrandoli nel mirino della sua Beretta come guardie bianche di un regime da combattere e da abbattere. No, li ha colpiti solo perché stazionavano nel posto sbagliato nel momento peggiore. Cioè nel momento in cui un uomo ormai del tutto privo di riferimenti ha pensato fosse giunta l’ora di farla finita. “Non odio nessuno”, si è affrettato a dire dopo la cattura. Forse neppure quei non meglio precisati politici cui intendeva presentare il salatissimo conto della sua disperata condizione. Come si vede, manca il pathos, la motivazione profonda che collettivizza il dramma. Sulla scena della mancata strage si muove un attore carico di personalissimi risentimenti e tuttavia privo di quella tempesta di assoluto che è l’unica capace di inverare la tragedia. Preiti non si fa eroe e ancor meno assurge a vindice di una nazione stremata e sfruttata da politici ingordi e pronti a tutto. Il coro, infatti, gli è contro.

Non c’entrano dunque l’attentato subito da Togliatti nei pressi di Montecitorio o la statuina scagliata a tutta forza sul volto di Berlusconi. Gesti di due squilibrati, non c’è dubbio, ma a modo loro prigionieri di un’autentica ossessione politica dal momento che i bersagli prescelti esercitavano un elevatissimo richiamo simbolico. Qui è diverso: Preiti è un attentatore senza identità politica. Avrebbe sparato contro il primo volto noto che gli fosse capitato a tiro. La matrice della sua insania resta annidata in una dimensione intimistica. Di politico ha scelto solo il luogo, dall’alto valore simbolico, ed il tempo, perfettamente coincidente con l’ora solenne del giuramento dei membri del nuovo governo. Ne cercava forse qualcuno intorno al Palazzo. In mancanza ha fatto fuoco contro due uomini in divisa.

Risulta perciò davvero difficile non collegare il suo folle gesto allo sport attualmente più praticato dalla maggior parte dei mezzi d’informazione senza distinzione di sorta tra servizio pubblico e tv commerciale, tra carta stampata e piattaforme digitali, cioè la caccia al politico. Difficile far finta che c’entri poco la quotidiana, morbosa e infine irresponsabile campagna d’odio montata da anni contro gli eletti, anzi i nominati. Vogliamo contare le ore dedicate quotidianamente da tutte le reti televisive all’antipolitica militante? Vogliamo calcolare quante volte al giorno volte anchormen e conduttori, i cui stipendi superano cinque, dieci, venti volte quello di un senatore o di un deputato, fanno i conti i tasca all’odiata “casta”? Nel mondo dell’informazione si contano sulle dita di una sola mano le eccezioni allo spaccio della bestia trionfante. Pochi hanno avuto il coraggio civile di mettere in guardia dai rischi impliciti in una predicazione in bianco e in nero, tutta tesa ad accreditare la favoletta di una società civile dura e pura contrapposta ad una classe politica cinica e corrotta.

Esiste una solida relazione tra questa manichea e tutto sommato menzognera rappresentazione della realtà ed il minaccioso “Rodotà-tà-tà-tà” che l’immaginifico linguaggio di Giuliano Ferrara ha efficacemente tradotto nell’ultima raffica della Seconda Repubblica. Provenivano dalle schiere della santa e immacolata società civile gli aggressori di Franceschini e così anche i mancati linciatori di Fassina, due rappresentanti del popolo intimiditi da gentaglia incarognita da professionisti dell’indignazione comodamente appollaiati nei salotti televisivi o nelle redazioni dei giornali solo perché stavano per votare Napolitano. Napolitano, capite? Non Totò Riina o Provenzano. Questa solida relazione c’è sicuramente perché il racconto in bianco e nero può descrivere un regime autoritario, non una democrazia – approssimativa e sgangherata finché si vuole, ma pur sempre democrazia – ossia un sistema politico dove i governi sono lo specchio della società e non la sua negazione.
E ha davvero poco senso tirare in ballo i grillini, che dell’albero dell’antipolitica sono semmai il frutto, non la radice. Che è invece da ricercarsi nella rappresentazione che l’informazione dà dell’attività pubblica in genere, sia essa parlamentare, di governo o dei livelli elettivi più vicini al territorio.

Le tv, soprattutto, hanno vampirizzato la politica. Ne succhiano il sangue sempre, comunque ed ovunque. Non c’è format che tenga. Si parla di politica, si critica la politica, si ride sulla politica, si impreca contro la politica. Si comincia da quando i cittadini aprono gli occhi fino a quando li richiudono. La realtà è che il sistema dell’informazione – con poche, lodevoli, eccezioni – non ha avuto alcun interesse a spiegare la genesi della crisi in atto, le sue remote cause internazionali, le sue dimensioni planetarie, ma ha deliberatamente scelto la strada della caccia all’untore finendo per addossargli ogni colpa. Nessuna difesa del ceto politico – responsabile per definizione e che per insipienza e per codardia si è prestato al gioco al massacro pensando sempre che a cadere fossero gli altri cioè quelli che stanno seduti accanto o di fronte – ma è giusto sottolineare come questa feroce opera di denigrazione sia sfociata in aperta delegittimazione. Della funzione prima, delle persone dopo. E quando questo accade, si resta nudi, privi persino della propria dignità di uomini e di donne, esposti allo sfizio di chiunque. E chi lo fa, rischia pochissimo. Male che vada, è pronta a scattare via web la collaudata catena di soccorso e di solidarietà.

Fingono di non accorgersi i santuari dell’informazione che scaricare tutto sulla politica equivale a deresponsabilizzare la società. Luigi Preiti non è solo un disoccupato e un separato. È un uomo malamente indebitato. Prima per la sua attività poi perché perché si è fatto prendere dal gioco e dalle scommesse, il classico tunnel di cui non si vede l’uscita. Di tanto, però, non ha dato la colpa a se stesso né in se stesso ha ricercato la forza, la voglia e la dignità per venirne fuori. No, tutt’altro: si è armato, si è vestito di tutto punto, ha prenotato una camera d’albergo nella capitale e da lì si è spostato verso il centro per sparare a quei politici – per lui senza nome e senza volto – che però riteneva colpevoli del suo disagio. Ha fatto fuoco e ora c’è un poverocristo di carabiniere che se tutto andrà bene resterà paralizzato. Ne sentiremo parlare ancora qualche giorno. Il tempo necessario a tv ed ai giornali per autoassolversi con analisi più o meno convincenti. Poi, a gentile richiesta, si riprenderà con la premiata rumba dell’antipolitica. Almeno fino al prossimo pazzo di passaggio sotto i Palazzi dell’ex-potere.

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