Nuovi strumenti di propaganda
Dai pizzini a TikTok, come cambiano le mafie: ad Atreju confronto su nuove tecnologie e criminalità organizzata
«L’Italia a testa alta non parla di mafia come slogan ma è quello che fa nei gesti quotidiani e continuerà fino all’ultimo respiro», ha dichiarato Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare Antimafia
Dal linguaggio cifrato dei pizzini all’esposizione continua dei social. È il passaggio al centro del panel “Mafia: le indagini e il racconto. Dai pizzini a TikTok”, ospitato ad Atreju, che ha messo a confronto politica, magistratura, forze dell’ordine, comunicazione e mondo culturale sul modo in cui le organizzazioni criminali stanno ridefinendo strumenti, codici e pubblico di riferimento.
Il contesto e l’apertura dei lavori
Ad aprire l’incontro è stato il senatore di Fratelli d’Italia Salvatore Sallemi, vicecapogruppo al Senato, che ha richiamato l’attenzione sull’attrattività dell’ecosistema digitale per le mafie, citando dati che mostrano come migliaia di account vengano intercettati da messaggi, simboli e narrazioni riconducibili alla criminalità organizzata. Un terreno, ha sottolineato, che riguarda in modo diretto le nuove generazioni e impone una riflessione su propaganda, modelli culturali e possibili forme di avvicinamento.
Sallemi ha quindi rivolto un ringraziamento pubblico alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Chiara Colosimo, riconoscendone il lavoro svolto con continuità e determinazione. Il panel è stato moderato dalla giornalista Manuela Moreno.
Colosimo: il rischio della normalizzazione
Nel suo intervento introduttivo, Chiara Colosimo ha posto subito un discrimine chiaro: «L’Italia a testa alta non parla di mafia come slogan ma è quello che fa nei gesti quotidiani e continuerà fino all’ultimo respiro». Da qui l’analisi di una trasformazione che non modifica l’ossatura delle mafie, «assolutamente chiusa, verticale e impenetrabile», ma ne amplia i canali di comunicazione.
«La criminalità organizzata ha imparato a usare le nuove tecnologie – comunicative e non – e deve far paura soprattutto per la presa che ha sui ragazzi», ha affermato. I social, in questo quadro, diventano uno spazio di esposizione costante: «La criminalità organizzata si è specializzata anche sui social, ci sono esempi devastanti tutti i giorni. Tantissimi soggetti hanno fatto della criminalità organizzata una moda e l’hanno trasferita sui social». Il pericolo, ha avvertito, è quello di una normalizzazione che passa attraverso l’ostentazione di denaro e successo, legata alla droga e alla «ricerca del soldo facile».
Longobardi e la sfida della contro-narrazione
Sul piano della comunicazione è intervenuto Tommaso Longobardi, responsabile della comunicazione digitale di Giorgia Meloni, indicando nella “contronarrazione” uno degli strumenti centrali di contrasto. «Serve per rimandare al mittente la propaganda criminale e rimandare ai margini la feccia mafiosa», ha spiegato.
Longobardi ha descritto il cambio di paradigma imposto dalle piattaforme: «Da Facebook a TikTok. Su Facebook il commento aveva peso, esisteva contraddittorio. Oggi, nei video brevi, conta l’immagine». Anche l’insulto perde rilevanza: «Il messaggio è passato. Questo dà potere, perché sentirsi visti equivale a legittimazione».
Accanto alla contro-narrazione, ha posto il tema della responsabilizzazione delle piattaforme digitali, richiamando casi concreti di contenuti positivi rimossi e di video violenti lasciati circolare. Un meccanismo che, a suo giudizio, risponde più a logiche commerciali che a criteri etici e che rende necessario sostenere chi lavora quotidianamente contro la cultura mafiosa, spesso lontano dai riflettori.
Cultura, educazione e testimonianza
Nel dibattito è intervenuto anche Sebastiano Vitale, in arte Revman, artista e scrittore, che ha portato l’esperienza dei laboratori nelle scuole e dei progetti contro abuso, violenza e discriminazione. «Ho scritto un libro perché credo che dobbiamo usare tutti gli strumenti possibili per diffondere i valori della legalità», ha spiegato, rivendicando il ruolo della cultura come presidio educativo e alternativa credibile ai modelli criminali.
Le mafie, la rete e l’indagine
Il confronto è entrato poi nel merito operativo con gli interventi del procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia, e del comandante del ROS, Vincenzo Molinese. Entrambi hanno sottolineato la necessità di distinguere tra l’esibizionismo violento di singoli soggetti e la propaganda mafiosa strutturata.
La rete, è stato chiarito, è uno strumento «neutro»: può offrire vantaggi alle organizzazioni criminali, ma anche nuove opportunità investigative. Non esiste un reclutamento diretto sui social, quanto piuttosto una forma di “pre-addestramento”, un’esposizione simbolica che rende visibili soggetti fragili o aspiranti. Le mafie, hanno ricordato, continuano a utilizzare anche strumenti tradizionali come i pizzini, perché «utili e sicuri», affiancandoli a servizi digitali e a reti criminali specializzate, anche non mafiose, per comunicazione, propaganda e riciclaggio.
Un equilibrio ancora aperto
Il panel si è chiuso su una consapevolezza condivisa: l’esposizione mediatica rappresenta un’arma a doppio taglio. Se da un lato amplifica messaggi e modelli criminali, dall’altro incrina quella segretezza che per decenni ne ha garantito la forza. In mezzo resta la sfida più complessa: parlare ai giovani, sottrarre spazio alla mitologia mafiosa e restituire profondità e verità a un racconto che oggi si consuma, spesso, in pochi secondi di video.