Uccidere per gioco
Safari umani a Sarajevo, l’orrore dei “cecchini” italiani durante l’assedio serbo: si apre l’inchiesta a Milano
Cinque connazionali avrebbero partecipato all’assedio di Sarajevo tra il 1992 e il 1996 come “cecchini del weekend”, pagando per sparare ai civili. L’inchiesta della Procura di Milano, partita da un esposto dello scrittore Ezio Gavazzeni, punta a far luce su un capitolo oscuro della guerra nei Balcani e sui legami con l’intelligence serba
Cinque italiani, durante la guerra nei Balcani, avrebbero pagato per uccidere. Non per ideologia, non per dovere militare, ma per “divertimento”. È questo ciò che è dall’inchiesta per omicidio volontario plurimo aggravato dai motivi abietti e dalla crudeltà aperta dalla Procura di Milano, affidata al pm Alessandro Gobbis.
Cecchini per un weekend
A spingere la magistratura ad agire è stato un documento di 17 pagine datato 28 gennaio scorso, inviato dallo scrittore Ezio Gavazzeni, assistito dagli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini. Quel testo, denso di riferimenti e testimonianze, riapre uno degli incubi più oscuri della guerra di Bosnia: la presenza di “turisti del conflitto” che, partendo dall’Italia, andavano a Sarajevo per fare da cecchini contro i civili.
Dai colli di Trieste alle colline di Sarajevo
«Ciò che ho appreso, da una fonte in Bosnia-Erzegovina, è che l’intelligence bosniaca a fine ’93 ha avvertito la locale sede del Sismi della presenza di almeno cinque italiani, che si trovavano sulle colline intorno alla città, accompagnati per sparare ai civili», spiega Gavazzeni.
La fonte citata è un ex agente dei servizi di sicurezza del Paese, oggi testimone chiave dell’indagine. In una email del 2024 scriveva: «Ho appreso del fenomeno alla fine del 1993 dai documenti del servizio di sicurezza militare bosniaco sull’interrogatorio di un volontario serbo catturato (…) Ha testimoniato che cinque stranieri hanno viaggiato con lui da Belgrado alla Bosnia Erzegovina (almeno tre di loro erano italiani)».
Le informazioni, prosegue il testimone, furono condivise «con gli ufficiali del Sismi a Sarajevo», poiché già allora circolavano “indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste”.
Uccidere per gioco
Il quadro che emerge dalle carte è agghiacciante. C’è un presunto tariffario dell’orrore: «I bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis».
Tra i nomi in circolazione figurerebbero un uomo di Torino, uno di Milano — «proprietario di una clinica privata specializzata in interventi estetici» — e un triestino. I carabinieri del Ros stanno verificando testimonianze e tracciando i contatti.
Gavazzeni, nel suo esposto, fa riferimento anche al documentario “Sarajevo Safari” del regista Miran Zupanic. «Ci ha dato le password per accedere alla visione riservata del film (…) posso fornirle al magistrato», dichiara lo scrittore. Nel film compare un testimone “anonimo” che parla di “americani, canadesi, russi e italiani” pronti a pagare per “giocare alla guerra”.
Dietro l’orrore, l’intelligence serba
Secondo l’ex agente bosniaco, «i clienti erano persone molto ricche», attratte da un’esperienza “adrenalinica” e rese operative da un’organizzazione che avrebbe avuto alle spalle il servizio di sicurezza statale serbo.
Nel dossier compare anche il nome di Jovica Stanišić, già condannato per crimini di guerra, indicato come possibile regista del sistema. Le strutture logistiche sarebbero state garantite dall’ex compagnia aerea serba, con coperture turistiche e venatorie per mascherare i viaggi verso Belgrado e le zone del fronte.
Le ombre italiane e i faldoni spariti
«Parliamo di gente facoltosa, con una reputazione, imprenditori, che durante l’assedio di Sarajevo pagava per poter ammazzare civili inermi. Partiva da Trieste per la caccia all’uomo. E poi tornava e continuava a fare la vita di sempre», racconta Gavazzeni.
E aggiunge: «La mia fonte, E.S., ex 007 bosniaco, dice che il Sismi sapeva. Ed è intervenuto. Era presente sul territorio la missione Unprofor, a cui l’Italia contribuiva con la maggior parte dei soldati, e noi, italiani, avevamo una sezione Sismi a Sarajevo. Sappiamo che c’è un faldone su questo. Sui turisti di guerra».
Un faldone che, oggi, nessuno sembra riuscire a trovare. «Spero non sia sparito, sarebbe un fatto grave», avverte lo scrittore.
Dai tribunali dell’Aja a Milano
Gli inquirenti milanesi hanno acquisito gli atti del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, in particolare quelli riguardanti i crimini di guerra durante l’assedio di Sarajevo.
Già nel 2007, un ex vigile del fuoco americano, John Jordan, testimoniò nel processo a Ratko Mladić: «Non mi sembravano persone del posto. Il loro modo di vestire e le armi mi hanno fatto pensare che fossero tiratori turistici».
Oggi, trent’anni dopo, quella frase torna al centro di un’inchiesta che punta a dare un nome e un volto agli italiani che avrebbero trasformato la guerra in un macabro passatempo.
La caccia ai “cecchini italiani”
Gavazzeni afferma di aver raccolto «una quantità enorme di prove» e confida nel lavoro della procura: «Mi aspetto che si riesca a rintracciare almeno uno, o due di questi cecchini italiani. Poi magari dieci».
Dopo la pubblicazione degli articoli sulla vicenda, lo ha contattato anche «un testimone italiano, che dice di aver sentito il capo di allora, sul posto di lavoro, parlare di questa caccia all’uomo».
L’indagine, ancora in corso, potrebbe riscrivere un capitolo dimenticato della storia recente: quello dei “cecchini del weekend”, cittadini benestanti che — dietro il paravento del turismo — andarono a comprare la morte.