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Quella “rotta diplomatica” che porterà l’Italia fra i costruttori del nuovo Medio Oriente

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Quella “rotta diplomatica” che porterà l’Italia fra i costruttori del nuovo Medio Oriente

L’Italia sarà e vorrà essere della partita. Non più e non solo nel sostegno multilaterale alla sicurezza dell’accordo di pace ma come soggetto protagonista già di una visione del Mediterraneo e dell’area mediorientale che racconta di un rapporto diverso – paritario e sussidiario – fra Europa occidentale e i popoli del Mediterraneo

L'Editoriale - di Antonio Rapisarda - 12 Ottobre 2025 alle 06:30

Nel futuro di pace per Gaza e per tutta la Palestina ci sarà l’Italia. Così come, si spera al più presto, in quello dell’Ucraina. Giorgia Meloni fa parte della selezionatissima tornata di capi di Stato di governo invitati alla storica firma di pace fra Israele e Hamas in Egitto. Un risultato diplomatico “da premio Nobel” targato Donald Trump (l’impresa varrà pure per il prossimo anno e per quelli a venire: lo tengano in mente i giurati del premio) e sostenuto attivamente da Roma insieme agli attori regionali Egitto, Qatar e Turchia. Piano di pace che possiede – in potenza – tutte le carte per definire un nuovo Medio Oriente: senza, e questo è il dato più importante, il vizio occidentalista di “guerre umanitarie” e operazioni camuffate per violare la sovranità delle Nazioni.

L’Italia, proprio per questo motivo, sarà e vorrà essere della partita. Non più e non solo nel sostegno multilaterale alla sicurezza dell’accordo ma come soggetto protagonista già di una visione del Mediterraneo e dell’area mediorientale che racconta di un rapporto diverso – paritario e sussidiario – fra Europa occidentale e i popoli del Mediterraneo e dell’Africa. Un posto non da “spettatore” né tantomeno da potenza neo-coloniale, insomma, frutto dell’intuizione del Piano Mattei e della razionalità con cui di Giorgia Meloni ha gestito anche il delicatissimo dossier Gaza.

La premier italiana lo ha fatto, come è avvenuto sul terreno sensibile dei dazi e su quello in fieri dell’Ucraina, tenendo la barra dritta sulla necessità dell’asse euroatlantico e sul ruolo specifico dell’Italia per non spezzarlo: in un momento in cui la sinistra internazionale, in odio cieco a Trump e a tutti i governi conservatori, è tornata al vecchio amore anti-occidentale. Si può dire dunque, prove empiriche alla mano, che Meloni sia stata fra i pochi se non l’unica fra i leader europei a mantenere la stessa linea in tutti i dossier. Atteggiamento «filo-trumpiano», come dicono i detrattori? No, postura realista e responsabile: da governo ponte naturale fra le due sponde dell’Atlantico.

Cartina di tornasole è stata l’Ucraina. Gran parte dei commentatori e degli avversari politici non aspettava altro che vedere la premier abbozzare davanti a Trump, se non proprio retrocedere. E invece, proprio durante la prima visita ufficiale alla Casa Bianca, Meloni non ha avuto alcun timore nel rivendicare il sostegno a Kiev come architrave essenziale dell’essere popolo d’Occidente. Concetti – la difesa della sovranità ucraina dall’aggressione russa come perimetro di ciò che Europa e Stati Uniti sono chiamati a rappresentare nel nuovo mondo – che anche lo stesso Trump è arrivato a fare suoi: non a caso il destino di Kiev è sempre più un affare che riguarda strettamente l’immagine che il tycoon vorrà imprimere nella Storia, con la “s” maiuscola.

Medesimo approccio è quello che è avvenuto nella crisi di Gaza. Da una parte Macron e altri leader in crisi di consenso in patria che hanno utilizzato – come sul dossier ucraino – la politica estera come leva per sperare di riottenere una sorta di legittimazione. Proprio ciò che è avvenuto con il riconoscimento dello Stato di Palestina: una deriva accomodante nei riguardi di alcune piazze che, senza scalfire di una virgola l’approccio militare di Israele a Gaza, ha finito per potenziare proprio la “narrazione” di Hamas. Dall’altra Meloni che è rimasta coerente sulla via della diplomazia come strumento per evitare l’esplosione di un conflitto regionale. Dunque sostegno all’azione di Trump ed appoggio alle tesi della Lega araba (critiche sia con il governo di Tel Aviv che con Hamas), cercando di tenere anche Israele – al netto delle responsabilità di Netanyahu – dentro.

Una posizione tutt’altro che agevole che ha dovuto far fronte pure alla sfida delle piazze e all’incauta strumentalizzazione della Flotilla da parte della delegazione parlamentare giallo-rossa: entrambe alimentate dalla propaganda anti-governativa delle opposizioni e dai sindacati radicali. Il risultato è noto: mentre capi e papesse della sinistra sono rimasti con le “bandierine” ricordo di piazze che poi nemmeno li riconoscono e sostengono (si è visto con i referendum sul lavoro della Cgil e con il flop della remuntada della sinistra nelle Marche e in Calabria), la leader del governo di destra-centro porta l’Italia sul tavolo di pace più importante per i nuovi equilibri di una zona strategica per i destini e lo sviluppo dell’intero sistema mondiale.

Una prova di immaturità clamorosa per il campo progressista. Ormai in piena regressione ideologica: pronto a contestare, incredibilmente, persino il nuovo premio Nobel della pace, la leader dell’opposizione venezuelana Machado,  in nome – perché di questo si tratta – di una dittatura vetero-comunista come quella di Maduro. Tocca alla destra di governo, dunque, fare politica estera sui binari consoni di una forza occidentale come è l’Italia e garantire la rotta sostenendo ovunque, senza eccezioni e preoccupanti distinguo, il diritto all’autodeterminazione dei popoli.

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di Antonio Rapisarda - 12 Ottobre 2025