Le vie dell'immaginario
“House of Guinness”, la serie che racconta l’Irlanda in tumulto attraverso l’epopea della sua famiglia più iconica
Realizzata da Netflix, è un invito a perdersi tra i vapori della birra, le nebbie di Dublino e le vicende di una famiglia che ha contribuito a disegnare l'identità di un popolo. Non una lezione di storia, ma un racconto evocativo con molte contaminazioni e poche concessioni woke
Appena si preme play su House of Guinness, la nuova serie di Netflix, l’impressione è quella di ritrovarsi davanti a un déjà-vu affascinante. I richiami a Peaky Blinders sono immediati e inequivocabili: il periodo storico, l’atmosfera cupa, la costruzione dei personaggi. Ma c’è anche qualcosa di Gangs of New York, nel clima denso di tensioni sociali e religiose, e perfino un’eco del più recente Mobland, seppur in versione più mite, più trattenuta, come se la serie volesse rievocare quelle grandi narrazioni senza mai imitarle fino in fondo.
House of Guinness: una serie per tanti pubblici
House of Guinness si presenta come un prodotto ambizioso, pensato per parlare a più pubblici contemporaneamente. Strizza l’occhio a chi ama l’estetica virile e dannunziana dei superuomini tormentati e violenti, incarnata qui nel personaggio di Rafferty; conquista gli orfani di Peaky Blinders, che ritrovano lo stesso mix di brutalità e romanticismo noir; affascina la componente femminile con figure di donne determinate e vincenti, che si muovono in un mondo dove avere spazio e agibilità era un’impresa. È anche una serie che si rivolge a chi ama le saghe familiari, con il loro intreccio di vizi, passioni e segreti, e a chi non resiste al richiamo della politica e dei suoi retroscena, tra alleanze e tradimenti che ricordano — seppur da molto lontano e per poche scene — le dinamiche di House of Cards.
Un’estetica dei contrasti che tiene lo spettatore incollato allo schermo
Sul piano stilistico, la serie è potente e seducente. La fotografia è cupa ma non opaca, i toni caldi della birra, del legno e degli sfondi industriali si mescolano con la fredda umidità di Dublino, creando un contrasto visivo che tiene lo spettatore incollato allo schermo. La colonna sonora, un misto di punk rock e sonorità irlandesi, contribuisce a dare ritmo e identità al racconto: un battito costante, un richiamo alle radici di un’Irlanda ribelle e mai doma.
Qualche debolezza narrativa, tra forzature storiche e concessioni woke
House of Guinness è sicuramente un prodotto particolare ma per certi versi controverso, come il suo modo di giocare con la storia e con la realtà dei fatti. Il contesto è affascinante: l’Irlanda di fine Ottocento, quella che avrebbe poi partorito le lotte per l’indipendenza, Bobby Sands e l’intera epopea rivoluzionaria di un popolo in cerca della propria autodeterminazione, da troppo tempo sottomesso alla potenza britannica. Tuttavia, l’accuratezza storica è sacrificata sull’altare dell’intrattenimento. Ci sono numerose forzature nella trama, inserimenti di personaggi funzionali più al ritmo narrativo che alla verosimiglianza, e soprattutto c’è la scelta — la più discussa — di fare dell’omosessualità di Arthur Guinness il centro dell’intero arco narrativo del personaggio.
La biografia reale di Arthur non supporta questa interpretazione: non ebbe figli, e sì, circolarono voci sulla sua presunta omosessualità, ma mai confermate da alcuna prova. Netflix, coerente con la sua linea editoriale, ne fa invece il fulcro identitario del personaggio. Il risultato è comunque un Arthur affascinante e ben scritto, ma in gran parte inventato. Un esempio di quella “licenza creativa” che il colosso dello streaming usa spesso per allineare la narrazione a un certo pubblico, in particolare alla sensibilità Lgbtq+, qui rappresentata in modo tanto deciso da sembrare quasi prevaricante.
Il problema non è la presenza del tema, ma il suo peso specifico: finisce per ridurre la complessità storica della vicenda a un codice di lettura contemporaneo che, pur se esteticamente riuscito, appare stonato rispetto all’epoca rappresentata. Approccio che invece non è stato usato nella scelta della caratterizzazione fisica dei personaggi, interpretati da attori che corrispondono all’immagine degli irlandesi di fine Ottocento. Una scelta che dà prevalenza all’adesione al contesto storico rispetto a scelte che in altri casi hanno invece strizzato l’occhio a quello politico attuale, a partire dal tanto discusso Achille nero della serie Troy.
Il ruolo della famiglia Guinness nella costruzione dell’identità irlandese
Complessivamente, House of Guinness resta un prodotto di grande fascino. Sullo sfondo, rimane la questione più grande e più interessante: il ruolo reale della famiglia Guinness nella costruzione dell’identità irlandese. Non furono rivoluzionari, né nazionalisti in senso stretto, ma seppero incarnare, attraverso il successo della loro impresa, un simbolo di forza e di riscatto. Alcuni membri sostennero l’emancipazione dei cattolici e il suffragio universale, altri rimasero fedeli alla corona britannica e al fronte unionista. La loro influenza fu economica e culturale prima che politica, ma contribuì comunque a definire un’immagine d’Irlanda riconoscibile, forte, moderna.
Un serie che ricorda il potere dell’immaginario
E forse è proprio questo il merito più grande di House of Guinness: restituire, tra invenzioni e contraddizioni, il ritratto di un Paese in trasformazione, diviso tra identità e progresso, fede e modernità, morale e desiderio. Una serie che non insegna la storia, ma la evoca; che non spiega troppo, ma seduce. Un prodotto che va visto, perché è un collage ben riuscito di tante cose già viste — eppure, nel suo modo imperfetto, riesce ancora a essere affascinante. House of Guinness non è una lezione di storia ma un invito a perdersi tra i vapori della birra, le nebbie di Dublino e le ombre di una famiglia che, tra verità e finzione, continua a scrivere la storia dell’Irlanda.
(Foto dalla locandina Netflix di House of Guinness)