Le idee a posto. Contro l’ecologia ideologica della sinistra, riscoprire Konrad Lorenz e la sua etologia
L’ecologia è come la sociologia e l’antropologia, che sono scienze fin quando ne trattano degli scienziati, cioè fin quando non finiscono in mano a giornalisti di bocca buona; e l’ecologia, a ragazzine in carriera. In quanto scienza, l’ecologia è la scienza dell’ambiente: οἶκος, che significa casa, bene inteso non appartamento prigione di lusso, ma un luogo dove vivere tra pochi muri e ampi campi coltivati. “Casa che basti per starci al riparo, terra quanta ne puoi ottenere”, dice un proverbio calabrese, qui tradotto un po’ annacquato. Terra, però, che sia la terra coltivata di Virgilio, non la natura idilliaca e selvatica di Rousseau.
C’era qualche precedente già in età classica; per gli antichi Greci, il mondo era o civile o selvatico; e, secondo loro, nella parte selvatica non sorridevano i “buoni selvaggi” liberi e felici, bensì dei barbari che si arrangiavano a sopravvivere. I selvaggi presunti felici e contenti di campare “secondo natura” compaiono verso il XVIII secolo, grazie a quelli che il Vico derideva come “sformati racconti di viaggiatori per dare smaltimento ai loro libri”; e ci vollero gli studi… no, le esperienze dirette di Lévi-Strauss per sapere che i selvaggi non sono né liberi né felici, né tanto meno selvaggi, ma esseri umani come noi, tranne che per certi aspetti tecnologici, del resto molto recenti anche in Occidente.
Sapere, si fa per dire, giacché il falso mito della bontà naturale non perse vigore e si affaccia spesso nella mentalità divulgata e dei luoghi comuni, che, come dicevamo di sopra, è tutt’altro che scienza; e proprio per questo ottiene tanto facile successo. L’ecologia volgarizzata è, infatti, nient’altro che un’ideologia; e proprio per questo se n’è impadronita quella cultura che, in sintesi, chiamiamo di sinistra; però s’insinua un poco dovunque, pulpiti inclusi; ed è un’eredità di Rousseau e della leggenda dotta che la natura sia buona, e, in quanto buona, in antitesi alla cultura, quindi all’antropizzazione, presentata come cattiva; e, per dirla in soldoni, opposta all’umanità.
Non bisogna dunque stupirsi se ogni tanto qualche ideologo auspica la scomparsa degli esseri umani a vantaggio di un’immaginata natura delle farfalle e dei fiorellini. E hai voglia a raccontare che Platone e Cesare non potevano mangiare patate e passeggiare in mezzo a un panorama di fichi d’India, assenti prima del XVI secolo; e i presunti “nativi americani” non cavalcavano… eccetera; cioè che il mondo è, almeno per tre quarti, una creazione degli uomini, sia pure a volte consapevole a volte casuale. Niente da fare, l’ecologia di sinistra è un monolite di granito, e non si convincerà mai che i leoni sono carnivori e le gazzelle no; e anche i passerotti mangiano moscerini! Così questa superficiale ecologia si fa strada come fosse l’unica e indiscussa verità. Eppure ci sarebbero alternative, e davvero di solidi fondamenti scientifici, e che dovrebbe incontrare le simpatie della destra, e chissà se qualcuno dei meno giovincelli si ricorda dei miei articoli su Linea, del 1978, niente di meno.
È l’etologia, da una parola greca, ἔθος, che significa sia sede e ambiente, sia regole che l’ambiente detta e genera: e per altra via ne deriva l’etica, che, ricordiamo, è la morale storica e di gruppi umani organizzati, non di per sé naturale. Konrad Lorenz (1903-89), vivendo in mezzo agli animali, scoprì quella che, appunto, possiamo chiamare la loro etica, nel senso di comportamento innato, e anche acquisito, di ogni specie, per consentirle il rapporto con l’ambiente e con le altre specie animali che lo abitano. Etica, dunque regole di comportamento, senza le quali un sistema etologico non potrebbe vivere in ordine, e perciò, più semplicemente, non potrebbe vivere; e, di fatto, un sistema disordinato non vive, anzi non esiste giacché non sarebbe sistema, cioè rapporto d’interdipendenza, ma il dilagare dell’oclocrazia e confusione.
Banale, ma chiaro: se i lupi decidessero di non mangiare le pecore, entro un poco si estinguerebbero sia i lupi per fame sia le pecore per sovrappopolazione e a danno dell’erba. E quanto alla bontà universale… beh, leggete, di Lorenz, “Il cosiddetto male”, sui benefici dell’aggressività sia extraspecifica sia intraspecifica; e su come la stessa etologia la delimiti. L’etologia può divenire un’ecologia di destra, e quindi aiutare la destra a non dover mutuare, magari inconsapevolmente, concetti e linguaggio di sinistra? Sì, per il richiamo all’esigenza, anzi all’utilità dell’ordine come rimedio a quella forma strisciante e dilagante di tirannide che è l’anarchia. Sì, se è la corretta antropizzazione di un territorio; e non le briglie sul collo a chiunque e dovunque e comunque abbia costruito qualsiasi cosa, in testa certi architetti forsennati detti archistar; e siano abitazioni e industrie e intere città, anche sopra i fiumi, per poi stupirsi che, nelle piene, l’acqua si porti via le persone e le case.
Sì, se è accettazione (“amor fati”) della realtà, esplicitamente definendo, e se necessario negando i capricci spacciati per diritti; e una ricerca della felicità cui, non c’è fine, in un mondo che, per dirla ancora con Konrad Lorenz, regnano “l’ipersensibilità al dolore e l’iposensibilità al piacere”; il che è esattamente e genuinamente contro natura. Come se mangiassimo solo bignè, il che, a parte che ci becchiamo il diabete, sarebbe profondamente stucchevole, e scatenerebbe il bisogno urgente di peperoncino e sale. E così l’eccesso di felicità (ammesso qualcuno l’abbia provato mai!) pretende subito una benefica ondata di angoscia creativa. Sì, se l’accettazione della vita come avventura, che niente e nessuno garantiscono debba per forza finire bene e in commedia. C’è, infatti, bisogno di pathos e di dolore come di gioia, più o meno in uguale misura. Studiamo la letteratura, che, grazie a Dio, non è solo piagnisteo per depressi da salotto. Sì, se è riaffermazione di valori genuinamente umani, e non di qualsiasi presunto valore di quelli che alla prova dei fatti non valgono niente. Sì, se torniamo a imparare che il pane costa fatica, e uno se lo deve meritare con salutare sudore.