Le duellanti. Il confronto tra due leader donne può trasformare la politica. E ci pensa anche il M5S
Due leader donne, Giorgia e Elly. Che risultano vincenti. A dispetto di chi ha voluto impedire tra loro quel faccia a faccia che in tempi di astensionismo dilagante avrebbe potuto avere l’effetto di coinvolgere gli indifferenti. Le due si sono sentite al telefono dopo una vittoria che le ha coinvolte e in qualche modo rimesse sul terreno di un duello solo rimandato. Giorgia Meloni non nasconde di avere accolto con soddisfazione il ritorno del bipolarismo. I due milioni di voti persi da Giuseppe Conte hanno rappresentato la sconfitta di un modo di porsi arrogante e paternalistico nei confronti della premier. Non a caso espressione di un politico maschio e narciso. E chissà che anche i 5Stelle non stiano pensando di giocarsi la carta di una donna al timone del fu movimento grillino. L’immagine del partito ne guadagnerebbe in spontaneità e genuinità.
Il femminismo senza ideologia di Giorgia Meloni
E’ proprio quest’ultima la cifra che caratterizza Giorgia Meloni. La genuinità (“io sono e resto Giorgia”) unita al pragmatismo sono state le basi di un successo che non appare in discussione. Una che prepara il G7 e assaggia le ciliegie al mercato. Che nel mezzo di un incontro istituzionale dice che i tacchi le danno fastidio. E si alza per andare in bagno durante una conferenza stampa molto attesa. E infine replica per le rime a un anziano signore delle tessere che la tratta con sufficienza e ricorre all’insulto. Beh, una si identifica. E quelli che ne tentano la “mostrificazione” escono battuti sul piano dell’immagine e dell’immaginario. Lei è una come tutte. Una di noi. Femminista perché forte, senza bisogno di ideologia.
Schlein abbandona Prodi e torna a Berlinguer
E veniamo a Schlein. Una leader che non ha avuto paura di fare la sinistra. Se il discorso identitario paga a destra perché non dovrebbe farlo a sinistra? Schlein ci ha scommesso. E ha vinto. Ha portato in un Pd ripiegato su se stesso una ventata innovativa, prodotto di quel movimentismo che le ha fornito l’imprinting politico. E se Meloni non rinuncia alla Fiamma e appare più figlia dell’almirantismo che della destra finiana, Schlein anche su questo percorre lo stesso itinerario. Basta con i consigli di Prodi, con la nostalgia dell’Ulivo, coi vecchi saggi che impartiscono lezioni. Si torna all’antico e si recupera il sorriso di Enrico Berlinguer. E in tv si cita Tina Anselmi, democristiana ma partigiana. Schlein nel suo discorso per troppi mesi rimasto piatto e incolore ha cominciato a inserire quella capacità evocativa che è il sale della retorica di un leader.
Una sfida netta ma senza toni aggressivi
Anche la sfida, tra le due, assume toni netti ma privi di aggressività. Che mancano di quella perenne eccitazione lessicale che induce a deridere l’avversario, a trattarlo come un inferiore. Una: “Ci hanno visti arrivare ma non sono stati in grado di fermarci”. L’altra: “Stiamo arrivando”. Perché Meloni non calca la mano? Come tutti i leader che hanno capacità di visione ha intuito che l’avversaria è quella. Con gli altri non vale la pena di perdere tempo. E Schlein perché evita cattiverie e cadute di stile? Magari intimamente sa ciò che ha ben sintetizzato Paola Concia: “E’ chiaro che se non fosse stata Giorgia Meloni presidente del consiglio probabilmente non avrebbero scelto Schlein per guidare il Pd. La sua elezione è anche frutto dell’elezione di Meloni a premier”.