Turi Vasile, un guerriero della drammaturgia che sfoderò l’arma del linguaggio e l’amore per il teatro

11 Apr 2024 15:45 - di Rocco Familiari
Turi Vasile

Ho conosciuto Turi Vasile in anni lontani, quando – entrambi nella veste di Consiglieri di Amministrazione dell’Ente Teatrale Italiano – abbiamo combattuto battaglie, meritorie quanto… inutili, in difesa della drammaturgia italiana. Nel 1922, in occasione del centenario della nascita l’Università di Messina, sua città natale, ha ritenuto doverosamente di dedicargli due giornate di studio, delle quali sono stati appena pubblicati gli atti (col titolo Sotto il faro di San Raineri, Mucchi editore, che comprende anche un mio contributo). Ho volutamente utilizzato il termine “doverosamente” per mettere in evidenza l’aspetto ambivalente di questo evento: per un verso infatti è stato giusto, doveroso appunto, ricordare Vasile. Per l’altro, il fatto stesso di averlo dovuto ricordare, è stato in un certo senso umiliante.

Turi Vasile, un guerriero della drammaturgia italiana

Questa epoca consuma troppo rapidamente non soltanto quelli che si chiamano beni di consumo, bensì anche gli altri beni, quelli cosiddetti immateriali, ma non per questo meno reali dei primi, e di gran lunga più importanti. Scrittori di vaglia, com’è stato certamente Vasile e come lo sono stati tutti coloro che egli con grande generosità, nella veste di regista e produttore ha riproposto al pubblico che li aveva dimenticati o mai conosciuti, escono rapidamente fuori dal “giro” e difficilmente ci rientrano, se non per qualche rara congiunzione astrale. E si tratta a volte di nomi autorevoli: Bontempelli, Rosso di San Secondo, Cesare Vico Lodovico, Stefano Landi, Ugo Betti. E poi quelli della generazione successiva, Pinelli, Diego Fabbri, Siro Angeli, Gigliozzi, Perrini, Ennio De’ Concini, Chiavarelli e Ribulsi, da lui definito geniale. Quanti di costoro sono presenti sulle nostre scene? Forse, e raramente, soltanto Rosso di San Secondo, Betti e Fabbri.

“Quando conobbi Turi Vasile”

Quando lo conobbi, a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta, io sapevo molto di lui, come regista, sceneggiatore, autore, produttore, lui qualcosa di me, in particolare quale autore di un lavoro teatrale di un certo successo Don Giovanni e il suo servo, Premio Idi 1982, messo in scena nel 1982 da Aldo Trionfo con Andrea Giordana (nota a margine, anche Vasile aveva ottenuto, l’anno precedente, il Premio Idi per la commedia Lia rispondi) e come Direttore Centrale di un importante Ente Previdenziale. Ignorava soprattutto il fatto che io, negli anni Settanta, avessi in qualche modo raccolto un glorioso “testimone” che gli era appartenuto. In qualità di regista e Direttore del “Teatro Struttura” di Messina (il mio primo approccio al teatro è stato in quei ruoli), avevo infatti ricevuto il retaggio prezioso di un’esperienza che aveva segnato la storia del Teatro a Messina (dove ho vissuto per sedici anni), quella del Teatro Sperimentale del Guf, che egli rievoca appassionatamente nel volume che ho prima ricordato.

Un’avventura cominciata in teatro

Insieme con Enrico Fulchignoni, Adolfo Celi, Landi, Corsi, Cuzari, tutti personaggi destinati a diventare protagonisti nei vari campi dello spettacolo, avevano dato vita, in quella città fuori dai grandi circuiti culturali europei, a un teatro moderno. La memoria di quell’avventura, malgrado i protagonisti fossero tutti emigrati in cerca di miglior fortuna (trovandola: Fulchignoni a Parigi, in un importante ruolo internazionale, Celi nei tre mondi…, America latina, America del Nord ed Europa, quale regista, organizzatore culturale e superstar cinematografica, Landi nella televisione pubblica e Turi Vasile nelle varie vesti che ho indicato all’inizio), permaneva viva a distanza di tanti anni, grazie a epigoni che non avevano mai fatto smarrire il filo di quella preziosa e per certi versi avventurosa attività. Mi riferisco al Cut di Paola Pugliatti (che sarebbe in seguito diventata un’importante semiologa della scuola di Eco), figlia di Salvatore Pugliatti, uno dei più grandi giuristi italiani, rettore per più di vent’anni dell’ateneo messinese, cultore d’arte, nonché fine musicologo.

Turi Vasile e l’Eti

Con Turi Vasile ci conoscemmo, dicevo, in quanto entrambi consiglieri di amministrazione dell’Eti, il benemerito Ente Teatrale Italiano che una folle furia distruttiva ha voluto abolire, insieme con l’Id, l’Istituto del Dramma Italiano, istituzioni fondamentali per il sostegno della drammaturgia italiana contemporanea. L’Eti, come pochi forse sanno, fu creato in epoca fascista dai tre maggiori Enti Previdenziali dell’epoca, l’Ina, l’Inps e l’Inail, sul presupposto che il teatro, e perciò la “letteratura teatrale” fossero un servizio sociale. Per uno strano incrocio di pianeti, io mi sono ritrovato a essere, prima, membro del Collegio sindacale e poi del Consiglio di Amministrazione dell’Eti (e anche dell’Idi) su designazione dell’Inps, nel quale ho “militato” per 40 anni, per poi assumere la presidenza di altri Enti, sempre del comparto previdenziale.

Turi Vasile, l’aspetto di un guerriero, il coraggio dello sperimentatore

Quando vidi per la prima volta Vasile rimasi colpito dalla sua testa da antico guerriero, con criniera e sopracciglia folte e di un candore abbagliante. Mi venne subito in mente un’altra testa “leonina”, quella di Leonida Repaci, e pensai che forse c’è una diretta correlazione fra il furore… tricologico e quello caratteriale: entrambi gli scrittori, il siciliano e il calabrese, perciò appartenenti alla stessa area culturale, avevano infatti caratteri che definire forti è… fortemente riduttivo, essendo capaci di collere immense, ma anche di immensa generosità. All’Eti ci ritrovammo, lui cattolico militante e io laico non militante…, dalla stessa parte, in difesa di una drammaturgia che veniva via via soppiantata dall’arroganza di registi che pretendevano di ricoprire tutte le parti in commedia.

Il teatro di parola

Io usavo dire, e la cosa lo divertiva, che se Eschilo, Sofocle ed Euripide, invece che sommi scrittori, fossero stati registi o performer, la storia dell’umanità non avrebbe fatto alcun progresso. E quasi certamente non sarebbe neppure esistito Shakespeare, al quale dobbiamo, come sosteneva il compianto Bloom, l’invenzione delle “categorie emotive”. Constato con piacere che da un po’ di tempo a questa parte il “teatro di parola”, che poi significa teatro di idee e di sentimenti, sta riprendendo quota, sia pure per vie traverse, privilegiando i registi, che non intendono comunque cedere lo scettro…, l’utilizzo scenico di opere narrative, o di resoconti giornalistici, o di saggi. Ma tant’è, purché sulle tavole del palcoscenico si esprimano concetti, riflessioni, denunce, e si trasmettano emozioni forti, va bene qualsiasi tipo di linguaggio. Come diceva Chaikin, il teatro è, nella sua essenza, «un uomo, illuminato da una lampada o anche da una candela, che parla…». Ma non a sproposito…

Turi Vasile, un indimenticabile talento teatrale

Vasile aveva, fra le altre doti, un immenso talento teatrale e la sua produzione sta lì a dimostrarlo, anche se lo spreco, che sembra essere una categoria imprescindibile di questo Paese, fa sì che le opere, di qualsiasi livello, una volta messe in scena, spariscano. Resistono soltanto i classici, o pseudo tali, per i quali avviene il fenomeno opposto, vengono continuamente riproposti, in allestimenti spesso discutibili, essendo il nome di un autore noto, che sia Shakespeare o Pirandello, garanzia di richiamo. Il che ha indotto anni fa, un illustre quanto spiritoso critico, Ghigo De Chiara, a implorare una… moratoria per almeno cinque anni dei vari Sei personaggi…, Riccardo III, e così via.

L’animo drammaturgico

Per ricordare il Vasile drammaturgo – non ho le competenze per parlare di lui in quanto cineasta e produttore – mi soffermerò su due suoi lavori che meriterebbero una “riscoperta” (la facilità con cui si dimentica fa sì che qualsiasi opera venga riproposta dopo qualche anno dalla nascita, sia una riscoperta…): Una famiglia patriarcale e Lia rispondi. Quest’ultimo lavoro, dell’ ’84, è «una sorta di giallo (così Ciarletta, amico di Vasile e al quale dedica un capitolo del suo libro di ricordi), d’umore fra bettiano e diegofabbriano, imperniato su una donna che non parla, ma agisce e reagisce alle istanze esterne».

La potenza del linguaggio

È una marionetta, di palese derivazione dal capolavoro di Rosso di San Secondo Marionette, che passione!, la cui coscienza morale in subbuglio la costringe al silenzio. Per usare un abusato ossimoro, ormai inservibile, ma in questo caso quasi obbligato, il silenzio di Lia è un silenzio assordante che rimbomba nelle coscienze degli spettatori e degli eventuali lettori. Il Teatro di Vasile è infatti un teatro che non perde forza e interesse anche alla sola lettura, data la ricchezza e potenza del suo linguaggio.

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