Il “tigrotto” Saviano si vanta pure di Sandokan: “Lo invitai io a pentirsi, gli dissi che era in crisi…”

30 Mar 2024 9:59 - di Leo Malaspina

Dalla predica al delirio, il passo è breve, ma quando c’è Roberto Saviano di mezzo, tutto è possibile. Nel giorno del pentimento di Francesco Schiavone, “Sandokan”, boss dei Casalesi, lo scrittore si è scatenato sui social più di un Fedez quando annuncia l’acquisto di una Ferrari. Video, commenti, interviste, e oggi anche una paginata sul Corriere della Sera.
Ovviamente, Saviano – nei suoi festeggiamenti – dimentica di ricordare che lo scoop sul pentimento del boss lo ha fatto quel giornale – Cronache di Napoli – che lui aveva accusato di vicinanza ai clan, non in senso giornalistico ma di collusione, e da cui aveva attinto anche qualche articolo. Poi l’autore di Gomorra si dichiara felice, e ovviamente si prende i meriti della sua lotta contro Sandokan, nella quale – ricorda – c’era stato anche il suo invito a pentirsi, gesto che oggi il boss ha raccolto, lascia intendere, anche un po’ per merito suo. Ma la vera boutade è che, a suo avviso, “lo Stato potrebbe avere interesse solo a incassare il pentimento, ma non a utilizzare le informazioni del pentito“, questo Stato – e dunque questo governo, questa destra, questa Meloni – che “non fa nulla per contrastare l’economia mafiosa”. La solita solfa, insomma, con la scusa di Sandokan, da parte del “tigrotto di Mompracem”, anzi, di Napoli.

Saviano e Sandokan: un pentimento annunciato da lui…

In un primo video, ieri mattina, lo scrittore evitava l’esultanza immediata e sminuiva un po’ l’arresto. “La determinazione a collaborare con la giustizia di uno dei boss più rinomati del clan dei Casalesi, Francesco Schiavone detto Sandokan, potrebbe essere un importante passo in avanti alla lotta contro la criminalità organizzata come un bluff per evitare le durissime condizioni disposte per reati di questo calibro. Però. “Lo avevo invitato io a pentirsi…”.

L’articolessa sul Corriere

“Avevo 19 anni, era pieno luglio, e calò un clima di paura e ansia a Casal di Principe e in tutta la provincia casertana. Il re del clan Francesco Schiavone era stato preso. Era il 1998, a nessuno sembrò una fine ma solo un avvicendamento di potere. E infatti fu così che rimase re, anche in carcere in questi quasi tre decenni. Re fino ad oggi. Ventisei anni sono passati da quel giorno. Perché solo ora decide di parlare? La risposta è una. Schiavone è vicino a scontare la totalità della pena ma sa che, se non si pente, non uscirà mai. Si trova a un bivio, conservare la propria leadership mantenendo il silenzio o perderla per sempre parlando…”, scrive oggi sul Corriere della Sera. Un panegirico per dire che non è merito dello Stato. “Il pericolo più grande è che le organizzazioni abbiano capito che lo Stato voglia comunicare il pentimento di un boss, come un’immediata vittoria; ma che poi, quel poco che loro dicono non importi

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