Saluto romano, Veneziani smonta con l’ironia la bagarre di sinistra: ma quale reato, non c’è nulla di minaccioso
È una sorta di fenomenologia del saluto romano quella che, tra excursus storico e ironia, Marcello Veneziani dedica dalle colonne de La Verità al tipico gesto fascista, di cui ripercorre genesi e evoluzioni tra iperboli folkloristiche e strumentalizzazioni politiche in una carrellata storica in cui, a volo d’uccello, il giornalista e scrittore ricorda come, inventato da Gabriele d’Annunzio, quel gesto di commiato abbia accompagnato tutta la storia della destra nel dopoguerra: tra nostalgismo e fierezza, certo, ma anche tanta autoironia, sfoderato soprattutto ai funerali di personalità che hanno profondamente segnato passato e presente di un mondo politico, «raccontava una vita e una morte, una storia e una comunità. Nulla di retorico o di minaccioso». Concludendo come criminalizzarlo non abbia più davvero senso…
Saluto romano, la contro-storia di Marcello Veneziani da “La Verità”
E allora, spiega Veneziani nel suo sagace pamphlet giornalistico intestato al caso rispolverato in occasione della commemorazione di Acca Larenzia puntando al dito invece che guardare la luna a cu indica, ricorda come «novantanove anni fa entrava in vigore un decreto governativo che rendeva obbligatorio il saluto romano nei luoghi pubblici e nelle sedi amministrative. Non fu una trovata di qualche oscuro gerarca; l’idea originaria veniva da Gabriele d’Annunzio ed evocava il romano Ave Caesar». Una matrice storica, dunque, divenuta nel tempo una sorta di ritualità nel cerimoniale funebre dei big della destra. «Ci restano, nelle memorie degli anni passati, distese di saluti romani ai funerali di Giorgio Almirante e Pino Romualdi. Di Pino Rauti e di Teodoro Buontempo. Ma anche di Giano Accame e di altri meno famosi personaggi», sottolinea Veneziani.
«Un momento liturgico ai funerali, nulla di retorico o di minaccioso»
Che poi però aggiunge anche: «Il camerata officiante gridava il nome del defunto e la comunità ripeteva in coro «Presente!», facendo tutti il saluto romano. Anche a chi era estraneo al piccolo mondo antico del cameratismo, quel rito d’addio pareva avere una forza liturgica e rituale così intensa e corale che nemmeno la funzione religiosa riusciva a esprimere. Raccontava una vita e una morte, una storia e una comunità. Nulla di retorico o di minaccioso».
Il “caso” del verso di Lucio Battisti…
E ancora: «”Boschi di braccia tese”, cantava Lucio Battisti e i ragazzi con la testa “fasciata” pensarono orgogliosi che si riferisse a loro. Vero o falso, come poi mi disse il suo paroliere Mogol, quella frase entrò nel mito, nei cuori e nelle mani di molti ragazzi. Lucio è nostro, Lucio è nostro… I più teatranti allungavano il braccio al cielo, i più ispirati ne rivolgevano pure lo sguardo, i più timidi accennavano una manina atrofizzata, i più fanatici salutavano alla tedesca, i più coreografici accompagnavano il saluto romano con un batter di tacchi e il mento in alto. Comodi, riposo, dicevano i più ironici e chi sapeva distinguere tra la storia e la parodia».
Saluto romano e apologia di fascismo, Veneziani: «La nostalgia è un sentimento, non un delitto. E nemmeno un reato»
Una disamina che alleggerisce toni e pedanterie sul tema, che la sinistra e i giornaloni non mancano di rilanciare come errore da sottolineare in rosso ogni qualvolta ne ha l’occasione (e la cavalca ad arte). Un punto che Veneziani risolve semplicemente notando che «sono grotteschi i saluti romani a babbo morto in epoca democratica e antifascista. Ma ancora più ridicolo era far scattare la denuncia d’apologia di fascismo per un saluto innocuo e antico, come se il folclore fosse criminalità; per giunta in una cerimonia funebre. Il fatto che le cerimonie fasciste coi saluti romani siano avvenute tutte ai funerali dimostra ancora di più che il fascismo è terra dei morti e in articulo mortis non c’è articolo di legge che regga».
«Nostalgia, fierezza ma anche tanta autoironia»
Anche perché, rileva lo scrittore, «la nostalgia è un sentimento, a volte un risentimento, ma non un delitto. E nemmeno un reato. Si può esser giudicati fessi per un saluto romano, non delinquenti. Anacronistici, non terroristi. Tanto per fare archeologia comparata, non mi dispiace neanche il pugno chiuso, ha una forza simbolica raccolta e concentrata, una promessa che coincide con una minaccia, ma indica la fierezza di un movimento in lotta. Il saluto romano è un segno più estroverso, meno cattivo, più classico, più latino, più naturale, più socievole e più teatrale, perfino autoironico…». Un espediente, conclude Veneziani, che «evitava con un gesto unico e collettivo giri prolissi con fastidiose strette di mano, scambi di cortesi e sudate ipocrisie del tipo «piacere, onorato, molto lieto», e via coglionando il prossimo con ricevuta di ritorno»…