Solo danni dalla “Via della Seta”. Un’altra sciocchezza grillina cancellata dalla Meloni

7 Dic 2023 9:08 - di Luca Maurelli

L’imbarazzo di Giuseppe Conte, detto il Cinese, stamattina, nella lunga intervista a “La Stampa“, è davvero clamoroso. Gli chiedono cosa ne pensi dell’uscita dell’Italia dalla Via della Seta. Lui svicola e al riferimento che il giornalista fa al ruolo della Cina, schierata con Putin nella guerra in Ucraina, si limita a due righe algide. «Mi sembra che Pechino non abbia fornito armi e che anzi si sia offerta di giocare un ruolo per contribuire a un negoziato di pace». Chi si aspettava un’appassionata difesa del suo “abbraccio” a Xi-Ji-Ping è rimasto deluso. Neanche una parola sui numeri fallimentari di quella scelta strategica con la quale il premier grillino, 4 anni fa, portò l’Italia in ginocchio dalla Cina preannunciando mirabolanti effetti sul nostro export.

La Via della Seta, ennesimo pasticcio di Conte venuto alla luce

La realtà dice il contrario: ci ha guadagnato solo Pechino, in termini commerciali, ma è sul piano geopolitico che l’Italia ha subìto i danni peggiori, unico Paese della Ue ad aderire a quel protocollo, unico Paese occidentale a rompere il blocco atlantista per schierarsi con Pechino. Una sciocchezza, una delle tante di quel governo giallo-verde, che ieri il governo Meloni ha cancellato, come il reddito di cittadinanza, come i superbonus con supertruffe annesse…

I giornali di oggi, in modo curiosamente bipartisan, oggi si divertono a illustrare il bluff controproducente della Via della Seta (a eccezione dell’house organ grillino, Il Fatto Quotidiano), compreso Repubblica, costretta a dare ragione alla scelta di cancellare gli accordi con Pechino del governo Meloni.

La durissima analisi sui danni all’economia italiana di “Repubblica”

“È durata quattro anni la nostra partecipazione alla Via della Seta cinese, il grande progetto di diplomazia infrastrutturale di Xi Jinping… Di certo fu tragico il tempismo di quella firma, proprio mentre la sfida tra Stati Uniti e Cina saliva di colpi. Il governo gialloverde vide nel Memorandum una scorciatoia per aumentare l’export verso Est, inferiore a quelli dei vicini europei, senza comprenderne il peso politico. Anche per la dura reazione di Washington l’accordo è rimasto lettera morta. Non ci sono stati investimenti cinesi nelle infrastrutture italiane, men che meno in quelle strategiche come i porti, dopo quelli nelle reti avvenuti in epoca Renzi. L’arrivo in Cina via aereo di un cargo di arance siciliane è diventato il simbolo dei magri risultati: l’export verso Pechino negli anni successivi è aumentato, non decollato, da 13 miliardi nel 2019 a 16,4 nel 2022, con il balzo di inizio 2023 legato al caso di un farmaco prodotto da Pfizer in Italia. L’import dalla Cina in compenso è lievitato da 32 a 58 miliardi, sbilanciando ancora di più il saldo. Dopo quattro anni siamo sempre lì, con il dubbio che il treno del turbosviluppo cinese su cui sono salite le aziende tedesche o francesi, senza Vie della Seta ma con tanti viaggi dei leader a Pechino, sia ormai passato. La concorrenza è salita, come i rischi politici: le aziende italiane che fanno affari in Cina – moda, meccanica, chimica continueranno, difficile che altre si affaccino ora…”, è l’impietosa analisi del quotidiano romano.

Rampelli (FdI): “Economia italiana danneggiata dalla concorrenza sleale”

Sul fronte politico interno, il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, mette giù una nota durissima. “La decisione del presidente Giorgia Meloni di revocare gli accordi con la Cina, sottoscritti dall’ex presidente Conte, è un’ottima notizia per diversi motivi. Innanzitutto – spiega – questa scelta è volta a preservare l’economia italiana, i mercati nazionali e continentali, le nostre infrastrutture strategiche, il patrimonio manifatturiero e artigianale da troppo tempo cannibalizzato dalla potenza asiatica a causa del mai affrontato problema della concorrenza sleale”. Secondo Rampelli, “è stato il virus del globalismo a mettere in ginocchio la nostra capacità produttiva. Ricordo che negli anni l’ascesa cinese imperial-comunista, ha danneggiato fortemente il commercio italiano e quello europeo, si è infiltrata in porti e industrie, in quartieri e intere città con conseguenze socio economiche devastanti. L’export cinese, plagiando i nostri prodotti e utilizzando manovalanza a basso costo e priva degli elementari diritti sindacali e politici, ha attuato politiche commerciali scorrette, antitetiche a quelle rigidissime imposte alle nostre aziende, secondo un approccio tafazzista”, attacca l’esponente di Fdi.

Ora, sul piano diplomatico, è il momento di ricucire con Pechino. Ma seguendo una “via” diversa, molto diversa.

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