Pino Rigido è volato via: una colonna del Secolo d’Italia. Ma soprattutto un grande amico
Un dolore profondo per tutta la comunità del Secolo d’Italia. Pino Rigido è volato via. Si è incamminato verso altri mondi in silenzio, in punta di piedi, così come ha vissuto. Con eleganza. Con quell’eleganza comportamentale che l’ha sempre contraddistinto. È stato una colonna del nostro giornale, con la sua barba e la sua sigaretta, una copia di “Fuoricampo” sulla scrivania (il giornale sportivo che distribuiva all’Olimpico prima delle partite, la sua “creatura”, come amava dire) e gli occhi che alzava dal computer in cerca di uno sguardo d’intesa. Anni e anni vissuti insieme, ogni giorno, non solo negli orari di lavoro ma soprattutto dopo, quando andavamo via dopo aver finito la prima pagina. Un legame strettissimo, il nostro. Ci dicevamo tutto, come in confessione. Ma proprio tutto, senza veli. E questo perché Pino non avrebbe mai spifferato ad anima viva quello che gli si diceva. La fiducia era reciproca ed ero orgoglioso di conoscerlo a fondo, nei segreti più nascosti.
Ho avuto la fortuna di essere accolto da lui il primo giorno di lavoro al Secolo. Mi dissero che era il mio caposervizio. E lui mi diede subito un articolo da scrivere, un pezzo su un arresto di mafia. Dopo un minuto, un solo minuto, con voce perentoria mi chiese: «Hai finito?». Lo guardai ed ebbi la prontezza di rispondergli sì, anche se non avevo messo nero su bianco nemmeno una parola. Bastò questo scambio di provocazioni a farci diventare amici. Anzi, inseparabili amici. La sua professionalità era indiscutibile, aveva una bella penna. Ogni volta che confezionava un pezzo, voleva che lo rileggessi per evitare i refusi. Poi, con un sorriso, chiedeva: «Che ne pensi?». «Bello, Pino, da 9». E lui: «Perché non da 10?». E giù risate.
Parlava spesso della sua famiglia, dei suoi figli, delle sue origini pugliesi. Un altro suo grande amore era la Roma, motivo di litigio tra noi, non gradiva la mia fede nerazzurra. Per anni siamo andati insieme a vedere Roma-Inter all’Olimpico, 90 minuti da “nemici”, per poi andare insieme al ristorante per concludere la serata da “amici”. Una tradizione. Non faceva mancare mai la sua presenza nei momenti cruciali, arrivava con la sua moto, si toglieva il casco e rimaneva in silenzio. Un silenzio che era un «ci sto». E questo bastava.
Incrollabile la sua fede politica, coerente dall’inizio alla fine: le lotte giovanili, le botte rimediate dai “compagni” che gli tesero una trappola a Taranto, l’orgoglio di militare “dalla parte sbagliata”, in un ambiente che aveva tutti contro, la gioia che gli si leggeva negli occhi quando arrivò la conferma della vittoria della destra nel 1994. Era sorprendente quando parlava dell’Antica Roma, che amava in modo profondo, gli imperatori, gli dèi, Giulio Cesare. Ma mai ostentava la sua cultura. Il legame era così profondo che ogni primo dell’anno andavamo a pranzo insieme, con la collega Antonella Ambrosioni, «vi porto in un bel posto», il ristorante di Gigi Proietti. E di estate, quando tornava con la sua moto da Manduria, si fermava durante il viaggio per chiamare e prendere appuntamento: «Vediamoci stasera in centro». Faceva anche da pacificatore, come quando portò me e Antonio Pannullo, collega e amico, in un locale per farci stringere la mano dopo una litigata furibonda, un po’ alla Cornelia, Haec ornamenta mea. Insieme anche al Pronto soccorso del “Pertini”, quando si sentì male: non disse niente a nessuno, lo accompagnai e lui chiese ai medici: «Fatelo entrare, per favore, da solo sulla barella non resto, altrimenti firmo e vado via».
È difficile accettare la sua scomparsa. Rimarrà sempre il ricordo di un’amicizia che non conosceva limiti. E di quel gesto dolcissimo, quando portò i fazzoletti sull’altare a mia moglie il giorno del matrimonio, facendole coraggio nell’istante del fatidico sì, «forza Luisa». Era con noi sull’altare anche in quel momento. E questo dice tutto.
riposa in pace, chissà cosa avresti scritto della Roma oggi….