“7 gennaio 1978, soli davanti all’agguato”. Segneri, uno dei feriti, racconta il prima e il dopo Acca Larenzia
“L’Italia prima e dopo la strage di Acca Larentia”, un sottotitolo che colpisce per un libro scritto in prima persona da un ex ragazzo scampato a quell’eccidio: Vincenzo Segneri, autore di La metamorfosi di un Paese (pp. 209, euro 15,00, ordinabile su amazon.it). Come è potuto accadere, sul finire di quegli anni Settanta, che un ragazzo normale, di una normale famiglia italiana, studente prima dai Salesiani e poi all’Istituto tecnico Galileo Galilei, con una ragazza di cui è innamorato e tanti sogni per il futuro finisca nel mirino di una sparatoria omicida ad opera di estremisti di sinistra mai individuata che provoca una strage? Molto toccanti le pagine del capitolo che inizia, come in un diario, “7 gennaio 1978, ore 18,23…”. Vincenzo – per tutti Enzetto – è trasportato in preda a uno stato di shock da un’auto della polizia all’ospedale San Giovanni. “Colpo d’arma da fuoco” dice l’agente all’infermiere che lo prende su una barella.
Nel corridoio arriva un’altra barella: “Era incosciente – racconta Vincenzo – ed emetteva soltanto gemiti. Alzai la testa per guardarlo meglio in viso: riconobbi lo zuccotto a strisce bianche e blu…”. Era il suo caro amico Francesco Ciavatta, del quale pensava che si fosse messo in salvo… Poi, le voci dalla sala operatoria: non c’era più niente da fare: “Avevo assistito agli ultimi istanti di vita di Franco. Così alla shock precedente, il corpo in terra di Franco Bigonzetti immerso in un lago di sangue, si sommava la disperazione di aver perso un altro amico fraterno”.
Meno di un’ora prima un gruppetto di ragazzi tra i 17 e i 19 anni erano stati investiti da una gragnuola di proiettili mentre sostavano e chiacchieravano davanti alla sede del Msi di via Acca Larentia, la sezione Tuscolano. Quella sera Vincenzo aveva bisticciato con la fidanzata e invece di accompagnarla a casa come faceva sempre era sceso dal tram Termini-Cinecittà alla fermata di via delle Cave per fare due chiacchiere con i suoi amici della sezione. C’era da fare la colletta per la benzina e raggiungere gli altri al quartiere Prati per fare un volantinaggio: “Misi la mano in tasca per dare quello che potevo… Davanti a me quattro volti noti e Franco Bigonzetti, un ragazzo del Prenestino che non avevo mai visto. Sorridente e ben vestito indossava un impermeabile beige e si accingeva anche lui a partecipare offrendo del suo. Eravamo al di fuori della sezione a semicerchio: accanto a me Francesco Ciavatta, Maurizio Lupini, Giuseppe Gaudino e, appunto, Bigonzetti. Nell’oscurità del piazzale, ora privo anche della luce interna della sezione, iniziamo a sentire un crepitio… Un forte urto, che mi spostò il braccio in avanti, mi fece capire che si trattava di proiettili”.
I colpi in rapida successione durarono per attimi interminabili: “Miracolosamente Maurizio trovò di nuovo la toppa della serratura e aprì il portone della sezione. Ci tuffammo letteralmente all’interno mentre continuavamo a essere bersagliati ma, stranamente, non colpiti. Il motivo lo avrei capito più tardi: Franco Ciavatta, nel tentativo di mettersi in salvo, aveva preso a salire i gradini che portavano a via delle Cave ma nello stesso tempo si era esposto alla luce. Gli assassini lo avevano visto e avevano diretto verso di lui il fuoco…”. Quando i ragazzi, finito il fuoco, escono si vedono davanti il corpo a terra di Bigonzetti. Decidono di aspettare l’ambulanza: “La rabbia e l’impotenza si sommarono alla disperazione aggravata dall’ostilità che ci circondava. Nessuno accorreva, nessun conforto, nessun aiuto, nessuna solidarietà. Soli”. Mezz’ora dopo arriva la volante della polizia… Ore dopo, sempre ad Acca Larenzia, davanti a una manifestazione di solidarietà alle vittime della strage rimane ucciso anche un altro ragazzo, Stefano Recchioni, colpito dal fuoco partito delle forze dell’ordine…
Come e perché nell’Italia degli anni Settanta potevano accadere vicende come queste? Segneri cerca di descrivere la normalità assoluta di quei ragazzi. E per farlo racconta la storia sua e della sua famiglia: origini siciliane, parenti nell’Isola e a Verona, il papà –prima soldato nella seconda guerra mondiale e poi gran lavoratore – che muore che lui è piccolo, il collegio a Lanuvio, le vacanze dai parenti, la scuola dai Salesiani, la vita quotidiana a Torpignattara, il campeggio, le canzoni di Lucio Battisti, l’amore per Adriana, l’attivismo alla sezione di Piazza Tuscolo…
Non ci sono desiderio di vendetta né sentimenti incattiviti nelle pagine del libro. Ma il fatto di porre la strage di Acca Larentia come spartiacque della sua stessa biografia personale come della storia dell’Italia degli ultimi sessant’anni invitano però il lettore a un’analisi di prospettiva e a un’interrogazione di profondità. Vale la pena leggere il passo dove Segneri fa il bilancio della vita comune con sua moglie: “Né Adriana né io eravamo marziani: abbiamo fatto umilmente e senza troppi fronzoli qualsiasi lavoro, ci siamo sposati con pochi mezzi, lei ha lavorato fino a dodici ore al giorno prima del parto e da un mese dopo, non abbiamo avuto né richiesto nessun aiuto statale, ci siamo sempre guadagnati tutto, da poveri siamo diventati moderatamente benestanti: siamo sempre state persone normali”. Normalità e buon senso, appaiono, del resto come le costanti valoriali dell’esistenza e dello stile di vita del nostro autore.
Che alla fine del testo sembra lasciare ai lettori un chiaro messaggio, consapevole del contesto sempre difficile e del coraggio nel saper fronteggiare anche le fasi storiche più difficili: “Riprendere a credere nell’individualismo, uno stile di vita che rende orgogliosi e protagonisti del proprio futuro perché determinato dalla competenza che saremo riusciti ad acquisire, dalla capacità di progettare e dall’impegno per raggiungere gli obiettivi personali”.