Giorgia e la storia della destra: cos’è cambiato dal 1946 ad oggi. Tutte le tappe di una lunga “traversata”

15 Apr 2023 11:04 - di Annalisa Terranova

Pubblichiamo di seguito ampi stralci della prefazione di Annalisa Terranova al libro di A.Baldoni e F.Gennaccari “La traversata della destra” (Fergen) da poco uscito. Un volume che ripercorre in modo attento e puntuale le vicende della destra italiana e soprattutto ricostruisce tappa dopo tappa l’ascesa di Giorgia Meloni fino alla storica cerimonia della campanella che ha visto per la prima volta, in Italia, una donna protagonista

“Siamo a un tornante della storia in cui tutto si capovolge”. Lo scrittore Giampiero Mughini, in una intervista a Libero (26 novembre 2022) ha definito così il quadro politico nazionale. E tale rivolgimento, frutto della volontà degli elettori italiani, si deve a una piccola e ostinata donna che ha preso sulle sue spalle le sorti della destra italiana portandola alla vittoria e alla guida del Paese. E benissimo hanno fatto Adalberto Baldoni e Federico Gennaccari a ricostruire, in modo puntuale e preciso, pagina dopo pagina, qual è stato il cammino di Giorgia Meloni e del suo partito fino al fatidico insediamento a Palazzo Chigi di una premier donna e dichiaratamente appartenente a una destra non “addomesticata”.

Che cos’è la “destra meloniana”

Non solo: questo libro mostra cosa c’è stato prima e identifica quelli che sono gli assi portanti del progetto politico di Fratelli d’Italia e più vastamente di quella che possiamo definire “destra meloniana”. Sul cui futuro pesano tre interrogativi aperti: quanta continuità esiste tra FdI e i precedenti partiti che hanno rappresentato l’elettorato di destra, se FdI è un partito totalmente identificabile con la sua leader e dunque con il suo destino politico, se e quanto FdI – partito egemone del centrodestra – riuscirà a instillare nell’immaginario e nella cultura italiani quel patriottismo conservatore che è alternativo ai valori e alla mentalità della sinistra.

FdI e la tradizione almirantiana

Il primo punto è tanto controverso quanto importante per mettere a fuoco il progetto di Fratelli d’Italia, al di là di quelli che saranno gli esiti dell’esperienza di governo di Giorgia Meloni. Un primo elemento è indubbio: nella sua prima fase, FdI intende riprendere il filo spezzato di una storia, quella del Msi, e di un padre storico della destra, Giorgio Almirante, oscurato dalla destra di governo di An e di Gianfranco Fini. In un primo momento, fino alle elezioni europee del 2019, la Fiamma nel simbolo di FdI reca ancora la base trapezoidale con la scritta Msi. Un simbolo, spiegò Ignazio La Russa, che rappresenta “il segno indiscusso di una coerenza e di un attaccamento ai valori nazionali e la normale prosecuzione di un impegno politico in cui onestà e coraggio sono stati riconosciuti da tutti”. Nel suo libro “Io sono Giorgia” Meloni sottolinea di avere raccolto “il testimone di una storia lunga settant’anni”. “Mi sono caricata sulle spalle i sogni e le speranze di un popolo che si era ritrovato senza un partito, senza un leader. Che aveva rischiato di smarrirsi”.

La candidatura di Meloni a sindaco di Roma

All’inizio del cammino di FdI Giorgia Meloni non ha altra scelta che quella di ravvivare la tradizione almirantiana dell’alternativa al sistema, cui resterà fedele in occasione della nascita del governo giallo-verde (il governo Conte uno) e della successiva formazione del governo Draghi di larghe intese. Un’opzione che consente al tempo stesso di superare i logori schemi del berlusconismo e di differenziarsi dall’avventura futurista di Gianfranco Fini. Ulteriori novità non sarebbero state gradite da un mondo di destra deluso e disorientato. Di qui la preferenza per una strategia che poggia sull’ “usato sicuro”. Non solo, ma come sottolineano opportunamente Baldoni e Gennaccari, Meloni mostrerà nel 2016, candidandosi a sindaco di Roma, che la leadership di Berlusconi è ormai declinante e che l’asse con la Lega di Matteo Salvini è la direttrice lungo la quale occorre incamminarsi per chiudere la stagione di un Cavaliere padre-padrone dell’alleanza di centrodestra. La coalizione antiprogressista potrebbe attestarsi, a questo punto, su un equilibrio che vede la Lega egemone nel Nord, FdI forte e radicato al centro e Forza Italia supportata dall’elettorato del Meridione. Schema presto scardinato dall’ambizione di Matteo Salvini di trasformare il partito regionale del Carroccio in un partito nazionale che guida con temi e contenuti di destra-destra. Un quadro che rappresenta per FdI un’altra sfida che si articola in un rapporto complesso con la Lega salviniana: competizione e differenziazione. Meloni e Salvini cavalcano gli stessi temi e le stesse parole d’ordine ma la leader di FdI punta anche a discostarsi da alcune ostentazioni “stile Controriforma” che caratterizzano la comunicazione di Matteo Salvini.

Per FdI l’anno d’oro della crescita è il 2019

La decisione di FdI di non entrare nel governo Conte uno rinsalda l’immagine di una leader coerente: così, mentre la Lega si logora nell’esperienza di governo, FdI conquista posizioni. Il ribaltone del M5S che pur di restare ai posti di comando si piega all’abbraccio col “partito di Bibbiano” (così Luigi Di Maio aveva definito il Pd) segna per la destra meloniana un altro punto di svolta importante. La leader di FdI convoca la piazza chiedendo che si vada al voto: e all’appello contro i “ladri di sovranità” rispondono migliaia e migliaia di cittadini. Una folla inaspettata. E’ il 9 settembre del 2019. Un anno d’oro per il partito che segna successi continui: dall’elezione di Marco Marsilio in Abruzzo al superamento di Forza Italia nei sondaggi. E’ anche l’anno della grande manifestazione in piazza San Giovanni in cui Giorgia Meloni conquista con il suo refrain “Io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana…” l’intero elettorato del centrodestra. Al di là dei contenuti, grazie a quelle parole che, opportunamente remixate, diventano una hit sui social accompagnata da musica elettronica, Giorgia Meloni esplode letteralmente sul web. Apparentemente l’episodio non ha nulla di politico e invece risulta, a posteriori, molto importante nella costruzione del “personaggio Meloni”.

La conferenza programmatica di Milano

Gli anni della pandemia, durante i quali FdI combatte il terrorismo psicologico sul Covid, e l’esperienza del governo Draghi, durante il quale la leader della destra sceglie un’opposizione non strillata ma rispettosa, fortificano ancora di più il prestigio di Giorgia Meloni. Nel 2021 il Financial Times “vede” le potenzialità di una leader sempre più incisiva: è lei l’astro nascente della politica italiana. Un anno dopo è l’autorevole The Times a scrivere della possibilità che Meloni diventi il premier in Italia: una leader che ha ormai superato, nei voti e nella fiducia presso gli elettori, il “concorrente” Matteo Salvini. E’ con la conferenza programmatica di Milano dal titolo “Italia, energia da liberare” che FdI esplicita la sua ambizione a trasformarsi in destra di governo. La kermesse dell’aprile 2022 sostituisce alla vecchia idea del centrodestra quella di un campo largo anti-progressista in cui è la destra a dettare l’agenda. Gli osservatori giudicano non a caso con interesse questo passaggio definendolo il “predellino” di Giorgia Meloni.

La gag sulle camicie nere

Giorgia Meloni a Milano affronta il tema del fascismo rappresentando in modo macchiettistico i cultori dell’antifascismo viscerale. Nel discorso di chiusura della conferenza programmatica risponde con una mimica di trenta secondi a chi tira ancora fuori l’accusa di fascismo. Lo fa bene. Strappa applausi e risate. “Scusi, quella maglietta scura è un omaggio alle camicie nere?”. Meloni allarga le braccia, strabuzza gli occhi, si mette le mani in testa, agita le mani unite come a dire: “Ma de che?”. Esprime stupore, sconcerto, sarcasmo. Il Foglio la paragona addirittura a Gigi Proietti: “Del discorso di Meloni – entrata sul palco sventolando una bandiera italiana in versione Marianne nostrana – colpiscono però alcuni aspetti. Legati fra loro nella semantica. Il primo è quello teatrale che già impazza sui social. Trenta secondi da mimo, senza parlare, solo gestualità, per esprimere sdegno contro “i giornalisti che ci fermano per chiederci perché il vestito nero?”. Una scena, in dodicesimi, degna di Gigi Proietti, A me gli occhi, please.  Un pezzo preparato con dovizia di attenzioni.  Un momento che ha fatto ridere i 5 mila del MiCo (a proposito, costo dell’evento: poco meno di 200mila euro). I gesti, i silenzi, le parole sussurrate lontane dal microfono per mandare a quel paese chi ancora li indica come i pronipotini del Duce”.

Il rapporto con il fascismo prima e dopo Fiuggi

Qui occorre aprire una parentesi: se Giorgia Meloni può liquidare a Milano il fascismo con una gag seguita dall’interrogativo: “Ma vi rendete conto di quanto siete ridicoli?”, può farlo perché prima di lei c’è stata al congresso di Fiuggi una pagina ben più drammatica con il doloroso strappo di Fini che dal palco concludeva che il popolo ormai non più missino usciva dalla casa del padre per non farvi più ritorno. Furono giornate cruciali al punto che il giornalista Pierluigi Battista, inviato a Fiuggi per La Stampa, scriverà anni dopo, in un libro dedicato al padre fascista, che gli sembrò in quel congresso di assistere nuovamente ai funerali del genitore che nell’aprile del ’45 annotava sul suo diario: “Tutto si è rotto”. Dalla lacrime di Fiuggi alle risate della convention di Milano per la gag meloniana sono passati ventisette anni. Ma il tema del fascismo continua a incombere, e verrà agitato (inutilmente) contro la leader della destra per l’intera campagna elettorale, contribuendo al trionfo di FdI il 25 settembre del 2022. L’argomento ci riporta al primo interrogativo essenziale che abbiamo posto all’inizio: quale sia cioè il tasso di continuità esistente tra FdI e le precedenti esperienze politiche da cui anche la storia di Giorgia Meloni prende le mosse. Per quanto attenuata, la continuità c’è e la leader non fa nulla per nasconderla. Anzi, la rivendica nel suo discorso programmatico da premier alla Camera quando cita i giovani morti per mano dell’antifascismo militante. Uno scatto di orgoglio, legittimato dal voto popolare, col quale Meloni mostra di non volersi piegare ai diktat della stampa mainstream dal cui pulpito uno scrittore come Antonio Scurati le rimprovera di avere reso omaggio a Milano a Sergio Ramelli. Ebbene quella pagina per Meloni non è da nascondere, non è motivo di imbarazzo. E’ una pagina che va consegnata alla storia italiana.

Il recupero di Gianfranco Fini

In FdI c’è dunque la continuità accanto alla rottura con il “passatismo”, cioè con quell’atteggiamento che porta sempre a sopravvalutare ciò che non c’è più anziché comprendere quali opportunità offre il presente. Con quel pragmatismo che sempre contraddistingue i veri capi politici Meloni recupera anche Gianfranco Fini, il quale va in tv a dichiarare che lei è l’erede della nuova destra di Fiuggi e che le accuse di fascismo non hanno più senso. Infatti, dopo quella comparsata televisiva dell’ex capo della destra italiana travolto dallo scandalo di Montecarlo ma vezzeggiato dalla sinistra, la retorica sul pericolo fascista si smorza, si affievolisce fino a scomparire.

Meloni è una leader che sa fare sintesi

Il secondo punto da analizzare riguarda la forte identificazione tra FdI e Giorgia Meloni. La storia del partito e quella della sua leader sono sovrapponibili? E quanto? L’excursus di Baldoni e Gennaccari mostra che tuttavia FdI non può considerarsi, come ad esempio Forza Italia, un “partito contorno”, un partito cioè centrato esclusivamente sul carisma del leader. Giorgia Meloni porta nella sua esperienza le mille storie di una militanza dura e ardimentosa e anche gli esperimenti avanguardistici che hanno segnato la storia della destra, dai Campi Hobbit al movimentismo del Fronte della Gioventù degli anni Ottanta. Fa sintesi delle strategie adottate ben prima di lei da coloro che hanno guidato la destra italiana: l’apertura alla modernità di Pino Romualdi, la concretezza di Arturo Michelini, il non rinnegare non restaurare di Giorgio Almirante, la destra sociale di Pino Rauti e infine il riformismo della destra di governo incarnata da Gianfranco Fini ma di impronta tatarelliana. Una storia “pesante” che mancava completamente in Forza Italia e che fornisce invece a Fratelli d’Italia solide fondamenta capaci di resistere anche all’eventuale usura della sua leader.

 

 

 

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