La “rivoluzionaria” presenza della Meloni sul palco della Cgil manda in frantumi l’ipocrisia della sinistra
A denti stretti, anche i suoi maggiori critici lo ammettono: Giorgia Meloni, al congresso della Cgil, ha dimostrato coraggio e ha dato luogo a una performance di alto livello. Il dato politico più evidente del suo discorso – uno dei migliori dal suo insediamento – è di aver saputo essere, in questa circostanza, presidente del Consiglio di tutta la comunità nazionale della quale il sindacato di Maurizio Landini – che ha mostrato grande acume nell’invitarla, per tornare subito dopo al suo ordinario conflitto col governo – è di sicuro l’organizzazione di massa più distante da lei; dalle sue idee, dal suo percorso, dal suo schieramento.
Meloni sul palco della Cgil, quell’elemento poco dibattuto…
Ma c’è un dato, altrettanto evidente, ancorché poco dibattuto: cosa significa questo vuoto di 27 anni, di così lunga assenza dei capi del governo dal massimo raduno del più antico sindacato italiano? Un fatto “storico” imbarazzante, soprattutto per gli ex premier che che sono tuttora in servizio come leader dell’opposizione: Matteo Renzi, al tempo segretario del Pd e Giuseppe Conte, attuale guida di un M5S che contende ai dem lo spazio progressista. È un elemento che impressiona, ma plastifica, sul piano della comunicazione politica, la fenditura che da tempo divarica la working class dalla left italiana. L’evoluzione da sinistra “lab” a sinistra “lib” delle libertà civili – il partito radicale di massa preconizzato da Augusto del Noce – la si coglie anche nelle immagini della prima leader di destra e premier donna che parla all’assemblea dei delegati del sindacato “rosso”, a più di un quarto di secolo dall’ultima presenza – quella di Romano Prodi – di suoi predecessori a Palazzo Chigi.
Anche dal “sindacato rosso” voti in uscita per Giorgia?
Una rottura sentimentale ed estetica ricomposta da Giorgia Meloni che, per ciò, resterà nella storia della politica italiana. Contestazione a parte – che essendo molto minoritaria, ha fatto gioco al presidente del Consiglio – c’è un’altra domanda da farsi: siamo certi che non ci siano lavoratori iscritti al sindacato di Landini che non siano elettori della Meloni o che nutrano simpatie per lei e per la sua proposta? E non lo saranno, a maggior ragione e più numerosi, d’ora in avanti? Una questione, fossi io al posto delle opposizioni, mi porrei con qualche ansia e più di un ragionevole dubbio. Fratelli d’Italia è il primo partito in buona parte del Nord Italia, dove “resistono” significativi insediamenti industriali e ceti operai; dove sono presenti pezzi di corpo elettorale delusi dalla sinistra che sono alla ricerca di nuove forme di rappresentanza sociale. Un segno delle mutazioni in atto? Isabella Rauti – un nome simbolico nell’album di famiglia della destra – che sfonda e vince nel collegio senatoriale di Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia. Nel tempo della volubilità elettorale e della fuga della “sinistra arcobaleno “ dai luoghi tipici dell’operaismo e il suo scivolare verso bio-politiche del corpo “off limits”, é un fronte al quale gli analisti farebbero bene a guardare con attenzione.
La destra di Meloni non è quella di “Maggie” e di Sunak
E a notare le differenze profonde tra il nuovo partito conservatore italiano – che forse avrebbe bisogno in un tempo ravvicinato di una convenzione pubblica per consacrarsi definitivamente tale – e le formazioni conservative come quella inglese e altri movimenti marcatamente liberisti del Continente europeo. Anche qui: colpisce che i commentatori, così attenti alla “sinistra-peluche”, abbiano per nulla annotato le diversità marcate tra l’approccio soft della Meloni sull’immigrazione – in sintonia con le parole di Papa Francesco – da quello “spietato” del premier Rishi Sunak; il quale ha annunciato che vieterà di vivere nel Regno Unito a tutti i migranti che arrivano su piccole imbarcazioni: un bando a vita per i clandestini che saranno scoperti nell’ attraversare la Manica, ai quali Londra negherà in ogni caso e per sempre il diritto di asilo. E fatte le giuste proporzioni, va pure registrato – se qualche seria comparazione vogliamo abbozzare – che la Meloni accolta da Landini assomiglia assai poco a “Maggie” Tatcher; la ex ragazza, che viene dalla destra militante on the road, non é la “signora di ferro” che fu durissima con i lavoratori, soprattutto con i “musi neri” delle miniere inglesi. La nostra destra parlamentare ha nella sua tradizione nazionale la socialità: gli “antenati” della generazione politica di FdI si riconoscevano in un movimento che, fin dalle origini, si definiva “sociale” e raccoglieva i “suoi” lavoratori in un sindacato parallelo – la Cisnal, poi Ugl – che vantava milioni di iscritti i quali si ispiravano al sindacalismo nazionale di Filippo Corridoni. Altri tempi, naturalmente.
Meloni, la Cgil e il governo inclusivo della Nazione
Ma l’idea che un “governo della Nazione” debba essere inclusivo rispetto a tutte le classi sociali, in ascolto e dialogo con l’intero mondo del lavoro, è un heritage che permane nella memoria storica della destra e nella coscienza politica della nuova premier italiana. La quale lo ha esternato, più che altrove, con linguaggio e posture all’altezza del momento, tra i “lontani”: é uno dei paradossi della politica quando si eleva dal quotidiano. E poi: non ci sono i Maestri ad insegnarci che la separazione tra distinti non deve essere troppo ampia, sennò “si perde di vista l’opposto complementare, e non si scorge più il risvolto nero del bianco” (Jung)?