Meloni sotto attacco, più del Cav nel ’94: i “soliti noti” le vanno contro a testa bassa
Giorgia Meloni? È sotto attacco. In poche parole, più di Berlusconi nel ‘94. È lei il bersaglio. Eppure è un politico puro. Non ha un impero economico, non ha televisioni, non ha conflitti d’interesse. Ma ha un problema, anzi due: è di destra. È vincente nei sondaggi. Non si è mai vista una campagna così: soltanto contro. Non c’è un anti-Giorgia, un Prodi del nostro tempo, per cui la sinistra si batte: non ha un vero candidato premier. Letta fa solo l’ariete. Contro. A partire dalla sua comunicazione. Va a testa bassa contro di lei. La quale vive pericolosamente in mezzo ai proiettili. Forse dovrebbe stare più coperta, mandare compagni di squadra a fare da battistrada. Forse occorre si faccia proteggere di più dal partito. E uscire, con impegnative pronunce, quando il fine corsa è più vicino.
Contro la Meloni ne inventano una al giorno
Certo è che per adesso ogni uovo ha un pelo: gli avversari lo cercano con lenti di ingrandimento. Che vi aspettavate? Fanno il loro mestiere. Il medium (il video) è stato trasformato in messaggio, non il fatto (lo stupro) che la conteneva. Antica lezione semiotica. Vecchia quanto Mc Luhan. Inventeranno ogni giorno qualche nuova batracomiomachia in cui attirare la candidata premier. Che già deve fare i conti con roba rasoterra; metaforica é la stupidaggine delle competenze ministeriali del Lavoro confuse quelle della Gioventù: che c’entra la Meloni col supposto aumento della disoccupazione giovanile? Forse va detto che c’entra con la direzione di un governo: Letta ne ha guidato uno, no? Ma non serve lamentarsi. I competitori fanno il mestiere loro. E bisogna replicare. Senza eccessi. Col ragionamento. La gente vuole vedere il capo dell’esecutivo come figura rassicurante, non securitaria. Lei lo é stata, lo é. Sa esserlo. Deve continuare a essere se stessa: una forza coerente. E tranquilla. Scegliendo anche il campo dove combattere.
Cosa occorre per cambiare il sistema.
C’è la “vexata quaestio”del presidenzialismo. È centrale. Terreno scivoloso. Renzi docet. Il fronte progressista sciorina insensatezze, quasi fosse l’anticamera della dittatura. Fuori da ogni approfondimento. Pigieranno sull’acceleratore della Costituzione in pericolo; metteranno in campo studiosi seniores, alla Pasquino. E il centrodestra? Deve spiegare. La candidata premier, sul mutamento della forma di governo, può scendere nei dettagli. Occorre – secondo me – ribadire di più e con precisione che intende adottare il semi-presidenzialismo alla francese, non il presidenzialismo Usa. Cioè, un modello politico e istituzionale più vicino alla nostra statura di Nazione: da un punto di vista geopolitico, territoriale, demografico, socio-economico. Banalmente, siamo molto più simili ai francesi che agli americani. Vanno chiariti i risvolti del modello De Gaulle che ha molte affinità con le sensibilità di una destra contemporanea; con la sua cultura politica nel rapporto con l’Europa, con gli Stati Uniti, con le alleanze occidentali. Non é vero che le riforme non interessano all’elettore: con la svolta semi-presidenzialista l’Italia crescerebbe di ruolo nell’Unione Europea e nel sistema delle alleanze. Perché? Perché si libererebbe del fattore storico della sua minorità internazionale: i frequenti cambi di governo; come usa dirsi, la riforma, invece, stabilizzerebbe il suo sistema politico: la sua democrazia. Va dispiegato in faccia al Nemico Pressapoco: l’instabilità governativa é il fattore che ha sempre reso l’Italia debole; osservata con ansia dai partner occidentali.
Il cambio frequente dei governi: minorità dell’Italia
Questo la gente lo capisce molto bene. È impressa nella sua memoria collettiva questa “debolezza”: viene da lontano, dai governi seriali, uguali a se stessi, della Prima Repubblica. Una fragilità di Nazione a cui un tempo suppliva la potenza globale che abbiamo sul suolo italiano: la Santa Sede. Ma era un altro contesto storico. Un altro secolo; un altro mondo. Invece, facciamo i conti con questa immutata costante; si trascina fino ai giorni nostri. La caduta di Draghi dopo poco più di un anno – terzo esecutivo della morente legislatura – cioè del capo del governo col più alto rating internazionale, conferma questa minorità agli occhi del pianeta. Se non ce l’ha fatta lui a durare…Ma il problema non é la persona, é il sistema. Che impone un cambiamento. E che – anche questo va spiegato con pazienza – non sarebbe un rivolgimento autoritario.
Presidente della Repubblica eletto dal popolo
Il presidente della Repubblica, nel sistema francese, é eletto dal popolo e ha autonomi poteri, specie in politica estera. Una garanzia di continuità e di rapidità di decisioni adeguata al difficile tornante della nostra storia. Ma nel sistema d’oltrAlpe, il Capo dello Stato nomina un primo ministro: il potere é duale e non – ma quanti é precipitato il livello dei talk ! – a tendenza autocratica. Il quale primo ministro, per dirigere il governo, ha bisogno della fiducia del Parlamento, tutt’altro che subordinato: é uno dei “check and balance” che dà equilibrio al sistema. Tanto che il Parlamento potrebbe essere di “colore” diverso del Presidente: ulteriore “limes” ai di lui poteri. E si potrebbe dare il caso – come accaduto in Francia – di una “coabitazione” tra il presidente di uno schieramento e di un primo ministro, espressione della maggioranza parlamentare, di segno opposto: ciascuno “sovrano” nelle sue competenze. Bisogna ancora chiarire questi meccanismi ? Sì, bisogna denudarli. In linguaggi semplici. Non a Letta o al Polo dall’ordinale ballante; ma in favore del cittadino che ascolta e giudica. Che ha più Ragione del ceto politico. Non è poi Lui, il popolo, col vestito buono di Corpo Elettorale – fastidioso, “costituzionale” populismo – a dovere ratificare l’eventuale referendum la progettata riforma? Non dovrà eleggerlo Lui, il Capo dello Stato, col suo voto “personale ed eguale, libero e segreto”? E adesso, non é sempre il popolo a “scegliere” di fatto il presidente del Consiglio ? Ecco: vale la pena mettere a terra la questione. E sdemonizzarla, smontando la comunicazione contro, pezzo per pezzo; con l’arma preferita da Letta: il cacciavite. Che il leader del Pd trasforma spesso in clava. Ma va fatto. Con intelligenza adulta. E con un granello di callidità.