Il pentito Gaspare Mutolo punta il dito su Arnaldo La Barbera per il depistaggio di via D’Amelio

18 Nov 2019 18:13 - di Roberto Frulli
Mutolo, pentito di mafia, punta il dito contro Arlando La Barbera per il depistaggio su via D'Amelio compiuto da Vincenzo SCARANTINO (nella foto con la moglie Rosaria Basile)

Ventidue omicidi sulle spalle, Gaspare Mutolo, “storico” pentito di mafia e autista di Totò Riina, convinto da Falcone a collaborare con lo Stato, racconta, dalla sua prospettiva, lo scandalo di un depistaggio clamoroso, quello sulla strage Borsellino. E parla a ruota libera, in un’intervista con Adnkronos, di tante cose. Non solo di Falcone e Borsellino. Ma, anche, di Servizi segreti. Libici, in questo caso. Dell’ex-capo della squadra Mobile, Arnaldo La Barbera.
E, poi, delle persone che ha fatto finire alla sbarra. Di Corrado Carnevale, per esempio. Il Presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione infangato da Mutolo con accuse gravissime. E, poi, definitivamente assolto perché il fatto non sussisteva, nel processo per concorso esterno in associazione di tipo mafioso.

Ma Mutolo parla, soprattutto, di Scarantino, sedicente pentito. Accusato di aver depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Una carneficina firmata dalla mafia, su cui è calato un depistaggio che ha resistito fino a qualche giorno fa.

Quando una sentenza, emessa venerdì dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, ha certificato inequivocabilmente il depistaggio. E ha confermato la sentenza di primo grado condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della scorta.

Condannati a dieci anni i ”falsi pentitiFrancesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Ma i giudici hanno, anche, dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato a Vincenzo Scarantino, pure lui imputato di calunnia.

Il depistaggio? «Certo che c’è stato. E continua ancora oggi – assicura Mutolo – Non mi stupisce la sentenza d’appello di pochi giorni fa del processo “Borsellino quater”. Io conosco bene i soggetti e anche la storia…».

E’ il 1991 quando l’ex-picciotto di Cosa nostra, guardaspalle del boss palermitano Rosario Riccobono, decide di collaborare con i giudici Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo.

«Per me – dice Mutolo – il depistaggio sulla strage c’è stato. Falcone e Borsellino non erano invisi solo ai boss mafiosi…».

Mutolo racconta di avere conosciuto Paolo Borsellino nel 1976 «come giudice», dice.
«Iniziò proprio lui a farmi i primi processo».

Quanto alla decisione di avviare la sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone, Mutolo la ricostruisce così: «Era il dicembre del 1991 – dice – e dissi al giudice che volevo collaborare perché Cosa nostra aveva ucciso donne e bambini. E non volevo più assistere a questo scempio. Io stesso avevo anche dei figli. Non mi sentivo più al sicuro».

Di lì la decisione di raccontare al magistrato come stavano davvero le cose: «Ho parlato con Falcone e ricordo che c’era anche il magistrato Giannicola Sinisi. Io gli dissi: “Guardi che se inizio a parlare lo farò anche del suo ufficio. E arriverò fino alla Cassazione, al giudice Corrado Carnevale” (poi definitivamente assolto, ndr), che all’epoca era uno dei giudici più potenti in Italia. E Falcone mi spiegò che non poteva raccogliere le mie dichiarazioni e mi indicò Borsellino».

«Ma l’allora Procuratore capo,  Giammanco non voleva che io parlassi con il giudice Paolo Borsellino. – continua Mutolo – “E io dissi che se non avessi parlato con Borsellino non avrei continuato a collaborare. Alla fine ho vinto io…».

Quanto al depistaggio, Gaspare Mutolo dice: «Borsellino e Falcone non si occupavano solo di mafia. C’era in quel periodo l’inchiesta di Mani pulite. C’erano tutti questi personaggi. Pensi che Falcone iniziò il cambiamento culturale. Prima nelle banche non si poteva entrare. Se un giudice voleva avere delle informazioni, lo prendevan a calci nel sedere. Mentre Falcone riuscì a sconfiggere questa cosa. Lui riusciva a toccare i santuari che non venivano toccati. Falcone non se la prese solo con i mafiosi, sapeva che c’erano anche i cosiddetti colletti bianchi».

Ora il pentito se la prende con l’ex-capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera. Che era a capo del gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”.
«Ricordo che nei giorni in cui io venivo sentito dalla Dia a Roma – sottolinea Mutolo – feci uno schema agli investigatori sui mafiosi. Ebbene, non ho mai fatto il nome di Scarantino. La Barbera veniva spesso a guardarmi però senza mai chiedermi niente. Si limitava a fissarmi e basta».

Altri tre poliziotti sono alla sbarra in un altro processo, sempre a Caltanissetta, perché accusati di calunnia in concorso.
Secondo la Procura avrebbero indotto l’ex-pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso sulla strage di via D’Amelio.

Mutolo affronta, nell’intervista ad Adnkronos, anche il capitolo di Capaci alla vigilia del processo Capaci bis, che riprenderà domani mattina a Caltanissetta con le deposizioni dei collaboratori di giustizia Pietro Riggio e Maurizio Avola.
«Si è sempre parlato di Servizi segreti ma si ha paura», sostiene Mutolo.

Nei mesi scorsi il pentito Riggio, ex-guardia penitenziaria, aveva detto ai magistrati che per la strage di Capaci, che il 23 maggio del 1992 costò la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, sarebbero stati utilizzati anche i «Servizi segreti libici».

Il 7 giugno 2018 Riggio decise di raccontare ai pm alcuni retroscena appresi sulla strage di Capaci. E riempì verbali che, ora, sono finiti agli atti del processo Capaci-bis.

Parlando di un ex-poliziotto, di cui cita anche il nome, sostiene: «Mi disse che si erano avvalsi per la strage di Capaci dei Servizi segreti libici».
La frase venne poi raccontata a un altro codetenuto di Riggio, di cui fa il nome, e dice: «Glielo raccontai e questi mi disse che effettivamente il suocero» dell’ex- poliziotto era un appartenente ai Servizi segreti libici».

E sempre Riggio aveva detto di avere appreso dal codetenuto che «mi disse che» l’ex-poliziotto «era al Sismi. E che il suocero era nei Servizi (segreti, ndr) libici. E che stava a Catania».
«C’è sempre stata paura di parlare dei Servizi segreti legati alla strage di Capaci – conclude Gaspare Mutolo – perché se un mafioso cammina armato e lo beccano va in galera, mentre uno dei Servizi deviati ha il tesserino e può camminare tranquillamente armato».

 

 

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