Salvini col suo governo, Renzi col suo partito: se la politica non spiega quel che fa
Che cos’hanno in comune, oltre al nome, il Matteo Salvini che ha aperto una crisi di governo in pieno agosto e il Matteo Renzi che si accinge a consumare una scissione a settembre inoltrato? Nulla, verrebbe da rispondere. Errore, perché un punto di contatto tra i due c’è: entrambi non spiegano quel che decidono. Eppure, parliamo di un governo sbaraccato e di un partito da spaccare. Ma né l’uno né l’altro obiettivo risultano infiocchettati in un motivo convincente o in una ragione plausibile. Sarà lo spirito dei tempi, ma decidere senza spiegare rischia di affermarsi come il tratto distintivo di una generazione politica. Ed è inutile rimpiangere il buon tempo antico o ricordare come una volta i partiti fossero costretti a manovre complesse ed elaborate prima di annunciare una svolta o di far cadere un governo. Oggi si esagera nel senso opposto, con il risultato che i nuovi leader si sentono talmente confortati dai like e dai pollici alzati dei loro followers da non sentire neppure il bisogno di dare conto delle loro scelte fuori dai social. È il decisionismo 4.0, che però esibisce il conio della deresponsabilizazione sull’altra faccia della medaglia. Già perché il capo resta tale, anche se sbaglia. E infatti Salvini è stato già perdonato, sebbene sia stato lui a spalancare le porte al «governo delle due sinistre» dopo aver fatto cadere il suo. Ne ha per caso spiegato il perché? E come avrebbe potuto se solo il giorno prima gli avevano approvato il decreto sicurezza. E così Renzi: Zingaretti lo ha seguito fino a ingoiare l’accordo con il M5S dandogli ragione su tutta la linea. Ma questo non impedirà al «senatore di Rignano» di andarsene dal Pd sbattendo la porta. Qualche appiglio lo troverà senz’altro. Nulla, tuttavia, che somigli ad una motivazione davvero politica, cioè agganciata alle reali esigenze dei cittadini. Ma quelle, si sa, come le stelle di Cronin, stanno a guardare.