Dirottò il bus di scolari, va a processo. E ora si dice «dispiaciuto e pentito»
Chiede «perdono a tutti», si dice «dispiaciuto e pentito», sostiene che «non volevo uccidere nessuno». In vista dell’apertura del processo, che avverrà mercoledì davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano, Ousseynou Sy, l’autista di origini senegalesi che a marzo dirottò il bus con 50 scolari a bordo, viene presentato dal suo avvocato come un uomo molto provato, quasi una vittima delle circostanze. «La situazione mi è sfuggita di mano», va dicendo alla stampa Sy per il tramite del suo avvocato, Richard Ostiante.
Il dirottamento di bambini diventa «un gesto dimostrativo»
Parole che fanno pensare a una precisa strategia difensiva, nell’ambito della quale Sy ha rinunciato alla celebrazione del rito abbreviato e anche, almeno per il momento, a giocare la carta dell’infermità mentale, considerata poco percorribile: «Per ora – spiega l’avvocato Ostiante – non chiederemo la perizia per discutere della capacità, parziale o totale, di intendere e di volere perché non c’è nulla che indichi un’alterazione». Quel dirottamento con autobus in fiamme – che si è concluso senza vittime solo grazie al coraggio di alcuni alunni, delle loro insegnanti e dei carabinieri che li hanno liberati – diventa così, nel racconto dell’autore, un «gesto dimostrativo». «Io non volevo uccidere nessuno, ma solo fare un gesto dimostrativo perché si parlasse dell’emergenza immigrati, dei bambini che nell’indifferenza generale muoiono nel Mediterraneo, di un esodo dall’Africa all’Italia e all’Europa che non interessa nessuno. La loro sofferenza non può rimanere silenziosa», è la versione di Sy, che va a processo con le accuse di strage, sequestro di persona, incendio, resistenza e lesioni. Il tutto aggravato dalla minore età delle vittime e dalla finalità del terrorismo.
Sy: «Voglio raccontare la mia storia»
Sy si trova ora nel sesto raggio del carcere milanese di San Vittore, in una cella del cosiddetto reparto protetti, senza alcun contatto con gli altri detenuti. Una precauzione, viene spiegato, per chi è accusato di aver compiuto reati contrari all’etica, perché anche dietro le sbarre vige la regola che i bambini non si toccano. «È una persona forte, ma la situazione che sta vivendo inevitabilmente pesa sul fisico e sulla mente. Trascorre le giornate da solo, un isolamento continuo che mi fa temere possa crollare», ha detto il difensore all’Adnkronos, sottolineando che Sy in carcere non vuole incontrare nessuno e non ha più contatti neanche con la sua famiglia. «In aula voglio raccontare integralmente la verità, quanto accaduto il 20 marzo, perché ho scelto di fare questo gesto dimostrativo. So e accetto le conseguenze a cui vado incontro, ma voglio raccontare la mia storia», sono state ancora le parole di Sy, riferite dal suo avvocato.