Strage di Bologna, un medico sul superteste Sparti: così hanno depistato verso i Nar
Da medico carcerario “smentì, carte alla mano”, il tumore di Massimo Sparti, testimone chiave del processo per la strage di Bologna che ha visto la condanna di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, unendo la sua alla testimonianza del figlio di Sparti (secondo cui il padre avrebbe ammesso di essere stato un superteste imbeccato), ma venne giudicato “inattendibile” dal Tribunale.
Ora, però Francesco Ceraudo, a lungo Direttore del Centro clinico del carcere di Pisa, sarà ascoltato nuovamente nell’ambito del nuovo processo sulla strage di Bologna in cui è imputato l’ex-Nar Gilberto Cavallini.
Nel libro appena uscito “Uomini come bestie. Il medico degli ultimi” (Edizioni Ets, Pisa 2019, con una bella prefazione di Adriano Sofri), Ceraudo dedica un capitolo alla strage di Bologna e a come scoprì che le certificazioni che attestavano la condizione di malato terminale di Sparti si basavano sul referto di un esame della clinica radiologica non riferito a Sparti ma a un altro paziente.
«La convocazione ufficiale per il processo non mi è ancora arrivata – spiega Ceraudo all’Adnkronos – ma l’audizione dovrebbe essere prevista a fine settembre. Io non do interpretazioni, non ho questioni ideologiche. Io metto a disposizione ciò che è caduto sotto la mia precisa attenzione, lo sento come un dovere, e l’ho già fatto un’altra volta, anche se fui giudicato inattendibile», dice il “medico degli ultimi’, che proprio per questo ha messo in fila tutta la vicenda nel libro.
«Il 9 aprile 1981 – ricostruisce Ceraudo nel testo – Massimo Sparti è arrestato con l’accusa di reati contro il patrimonio. Due giorni dopo inizia il suo pentimento e già il 3 marzo 1982 viene rimesso in libertà per sospensione pena. Massimo Sparti è stato teste chiave della strage di Bologna e queste sue testimonianze sono alla base dell’impianto accusatorio che ha inchiodato Francesco Mambro e Valerio Fioravanti. Non ci vuole molto a capire che Massimo Sparti ha venduto i suoi due amici, ricevendo in cambio la libertà. Del resto Mambro e Fioravanti avevano già sulle loro spalle pesantissime condanne. Di conseguenza non sarebbe cambiato nulla sul piano di eventuali, ulteriori condanne. Questo ho cercato di far capire al processo di Bologna, ma non sono stato creduto. Ormai tutti avevano una comoda verità in tasca e non intendevano metterla ulteriormente in discussione».
Ceraudo racconta di quando venne convocato a Bologna come persona informata sui fatti durante il dibattimento processuale: «Ho vissuto con molta apprensione questa vicenda anche perché un’amica che lavorava nell’Ufficio del pm Giovagnoli della Procura di Bologna mi avvertì telefonicamente di muovermi con molta prudenza – rivela nel libro- , in quanto erano corse insistenti voci di un eventuale attentato ai miei danni. Anche per questo inviai per ben tre volte una certificazione medica attestante la mia impossibilità a presenziare la relativa udienza. Alla quarta convocazione si presentarono a casa mia 4 carabinieri che mi presero di peso e mi accompagnarono a Bologna. A quel punto misi da parte ogni timore e reticenza e riferii le circostanze che erano cadute sotto la mia personale attenzione in qualità di Dirigente Sanitario della Casa Circondariale Don Bosco di Pisa».
«Venni interrogato per 7 ore, senza alcuna interruzione. Già questo la dice lunga sulla mia credibilità. Con mia somma meraviglia, la relativa sentenza mise in risalto la mia totale inattendibilità come teste. Ma che interessi potevo perseguire per sostenere il falso in un frangente così estremamente importante e delicato? Da una parte francamente fui felicissimo perché così mi sottraevo automaticamente al rischio di eventuali attentati. Una domanda, però, mi ha perseguitato nel frattempo: se ero un teste assolutamente inattendibile e quindi falso, perché non sono stato perseguito di conseguenza per il reato di falsa testimonianza?». Ceraudo ripercorre quindi «le circostanze cadute sotto la mia diretta attenzione e che sono state oggetto del dibattimento processuale».
«Nel dicembre 1981 – scrive – venne ricoverato al Centro Clinico Don Bosco di Pisa Massimo Sparti, un pregiudicato romano di simpatie neo-naziste, appartenente alla banda della Magliana, proveniente dal carcere di Orvieto per accertamenti e cure in merito ad un notevole dimagrimento accusato negli ultimi mesi. Secondo il relativo, preciso protocollo, sono stati praticati tutti gli accertamenti diagnostici con particolare riferimento alle visite specialistiche (chirurgica, internistica, gastroenterologica e psichiatrica) alla gastroduodenoscopia, all’ecografia addominale e ai markers tumorali. Le risultanze diagnostiche sono state tutte assolutamente negative. Veniva evidenziato soltanto un disturbo dell’umore in soggetto con emorroidi».
«Il Giudice Istruttore del Tribunale di Roma dr.Destro mi fece pervenire una richiesta di certificazione medico-legale attestante le condizioni di salute e se queste erano compatibili con la carcerazione. Io, senza alcun dubbio, risposi che le condizioni di salute dello Sparti erano compatibili con la carcerazione», scrive Ceraudo che poi riferisce delle circostanze della sua destituzione da Dirigente Sanitario e del fatto che chi aveva preso il suo posto «senza alcuna spiegazione plausibile e senza alcuna giustificazione clinica particolare aveva inviato con le modalità urgenti Sparti Massimo per eseguire una Tac addome presso l’Istituto di Radiologia degli Ospedali Santa Chiara di Pisa».
«Nessun specialista che aveva visitato Sparti, aveva formulato o consigliato un simile accertamento diagnostico anche perché l’ecografia addominale non aveva messo in evidenza alcuna patologia a carico dell’addome», riferisce Ceraudo, che definisce «un tuono a ciel sereno» la successiva «diagnosi severissima di adenocarcinoma del pancreas con ripetizioni metastatiche diffuse su tutto l’ambito peritoneale», che «imponeva la prognosi infausta entro pochissimi mesi».
Il direttore sanitario «inviò subito il certificato di assoluta incompatibilità con la carcerazione all’Autorità competente e nel giro di pochi giorni a Massimo Sparti venne sospesa la pena e venne inviato immediatamente a casa. Io non riuscivo a capire cosa era potuto succedere. Mi sono tormentato giorni e giorni. Non riuscivo a darmi una spiegazione plausibile. Non riuscivo a darmi pace. Avvertivo la profonda umiliazione di aver commesso dei gravi errori. A un certo punto non riuscendo a tollerare la situazione, mi sono messo in testa di ripercorrere tutto l’iter diagnostico parlando e riparlando con i vari Specialisti che avevano sottoposto a visita Massimo Sparti. Lunghi, elaborati consulti con il Chirurgo Alessandrini e con il Gastroenterologo Capria. Non è venuto fuori nulla. Il buio più assoluto. Non ci spiegavamo perché era stata chiesta la Tac dell’addome. Su quali basi cliniche. Passavano i giorni e non emergeva alcuna verità a proposito».
«Nel mese di Maggio 1982 un Collega della Clinica Radiologica dell’Università di Pisa mi mise al corrente che circolava la voce che c’era stato uno scambio doloso delle lastre della Tac in merito a Massimo Sparti. In sostanza erano state assegnate a Massimo Sparti le lastre di un altro veramente ammalato di tumore al pancreas».
La risposta dell’esame – aggiunge – portava la firma di un radiologo che si diceva fosse iscritto alla P2.
«Le circostanze che si sono susseguite confermano lo scambio delle cartelle – prosegue Ceraudo – Massimo Sparti, nonostante una diagnosi severissima, rifiutò qualsiasi tipo di terapia. Successivamente venne ricoverato presso l’Ospedale San Camillo di Roma dove venne sottoposto a una laparotomia esplorativa che evidenziò: “negativa l’esplorazione dello stomaco, duodeno, fegato e pancreas“».
«Nel maggio del 1997 quando i carabinieri vanno all’Ospedale San Camillo per acquisire, su ordine del pubblico ministero di Bologna, scoprono che la cartella clinica di Massimo Sparti è andata distrutta a seguito di un incendio scoppiato nell’archivio del nosocomio», prosegue il medico, che aggiunge: «Quando venni reintegrato a Dirigente Sanitario, mi recai in archivio per valutare la cartella clinica di Massimo Sparti» e, racconta, si rese conto che Sparti era stato dimesso con la diagnosi di tumore gastrico, «mentre, nella certificazione medico-legale inviata all’Autorità Giudiziaria parlava di adenocarcinoma pancreatico con ripetizioni metastatiche in tutto l’ambito peritoneale».
«Dal momento in cui è stato liberato, Massimo Sparti ha vissuto altri 23 anni ed è deceduto per tutt’altro motivo», è l’incredibile conclusione di Ceraudo.